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«Io, nel bunker dell’atomica di Hitler»

Sono passati più di sessant’anni, ma quella mattina se la ricorda ancora molto bene. La mattina in cui vide esplodere l’atomica di Hitler. Luigi Romersa oggi ha 88 anni, è stato un grande corrispondente di guerra, un esperto nel campo militare, ha fatto il giro del mondo quattro volte, sa bene cosa vuol dire «stare al fronte». Anche quella mattina di ottobre del 1944 era in prima linea: la sua è una delle pochissime testimonianze dirette che confermerebbero la tesi del tedesco Rainer Karlsch, autore del libro La bomba di Hitler sull’enigmatica Wunderwaffe, «l’arma miracolosa» del Führer, che in Germania sta dividendo gli storici e l’opinione pubblica.
Basata su una serie di documenti inediti - tra cui il disegno di un brevetto, risalente al 1941, per una bomba al plutonio - la ricerca di Karlsch vuole dimostrare la fondatezza di un progetto su cui si è molto favoleggiato: quello che portò gli scienziati nazisti molto vicino all’atomica, tanto da sperimentare l’esplosione di almeno due ordigni - due «bombe sporche» - nei loro laboratori di sperimentazione nucleare. È proprio in una di queste basi, a Rügen, nel Mar Baltico, che Luigi Romersa assistette a un test di «una bomba mai vista prima». Ecco il suo racconto.
«Quando Mussolini dopo la liberazione dal Gran Sasso incontrò Hitler, al castello di Ketrzyn, ebbe un accenno sulla sperimentazione di alcune armi “speciali” da parte del Terzo Reich. Hitler fu molto discreto e non scese in particolari: riteneva gli italiani incapaci di mantenere i segreti. Così, un giorno il Duce mi mandò a chiamare».
Era la fine del ’43, e Romersa aveva 26 anni, era un ufficiale e corrispondente di guerra del Corriere della Sera. In quel momento viveva a Salò. «Il Duce aveva il suo ufficio a Gargnano, nella Villa delle Orsoline, uno studio modesto, erano finiti ormai i fasti di Palazzo Venezia. Mi ricevette in una stanza misera, una grande vetrata che dava sul lago, la bandiera della Rsi in un angolo. Mi disse: “Voglio che Voi andiate in Germania per un’inchiesta, ufficialmente di carattere giornalistico, su quello che stanno facendo i tedeschi nel campo delle armi segrete”. Mi firmò due lettere, una per Goebbels, ministro per gli Armamenti, e una per Hitler, nelle quali mi presentava e garantiva per la mia persona. Così, presi la mia auto, una vecchia Millecento, e partii per Berlino. Durante il viaggio mi fermai mezza giornata a Dresda, ed era ancora intatta. Al mio ritorno, non c’era più: spazzata via dai bombardamenti. Comunque, a Berlino mi misi in contatto con il colonnello Morera, il nostro addetto militare, e poi mi presentai nell’edificio dell’ambasciata italiana. Da lì telefonai a un amico della propaganda militare che mi condusse da Goebbels. Gli presentai la lettera di Mussolini e lui chiamò il quartier generale del Führer. Venni ricevuto anche da Hitler, il quale mi diede l’autorizzazione di visitare la base di Peenemunden, dove conobbi Wernher von Braun, “l’uomo dei missili”, colui che nel 1969 avrebbe “regalato” la luna agli americani. A Peenemunden, dove mi portarono con un aereo militare, potei vedere tutto quello che i tedeschi stavano realizzando nel campo degli armamenti: i sottomarini che non avevano bisogno di emergere per caricare i motori, in modo da evitare gli attacchi degli aerei alleati, i Messerschmitt 163 e i Messerschmitt 262 che raggiungevano i 970 chilometri orari grazie al motore a reazione...». Sono le «armi segrete» dei nazisti di cui Romersa scrisse abbondantemente sui giornali già a partire dalla fine degli anni Quaranta. Ma l’arma più potente che vide, un’arma che ancora non aveva nome, fu proprio la bomba che lo storico tedesco Rainer Karlsch dice essere «l’atomica di Hitler».
Era la mattina del 12 ottobre 1944. «Mi condussero sull’isola di Rügen, nel Mar Baltico, in una zona vicino alla base di Peenemunden, dove veniva svolta la maggior parte della ricerca missilistica. È lì che ho assistito a questa esplosione eccezionale, una carica che adesso posso dire “atomica”, mentre allora si parlava di “bomba disgregatrice”. Vidi una luce abbagliante, poi un intero bosco scomparire. L'esplosivo era appoggiato su dei castelletti fissati nel terreno. Io, ripeto, non parlavo di “atomica”. Non sono uno scienziato o un fisico, ma ciò a cui assistetti era un esperimento identico a quello dei francesi quando nel dopoguerra iniziarono a munirsi di un arsenale atomico. Io ero all’interno di un bunker di cemento armato insieme a un gruppo di alti ufficiali tedeschi. Uscimmo molte ore dopo l’esplosione, indossando degli scafandri di amianto per proteggerci dalle radiazioni. Era un sistema completamente nuovo di combattere. Nessuno ancora disponeva di armi del genere. Cosa penso di quell’esplosione? Fu qualcosa che all’epoca non si poteva confrontare con nulla, almeno fino a quando due bombe chiusero la guerra in Giappone, a Hiroshima e Nagasaki».
Un ordigno simile fu testato nel marzo del ’45 in Turingia, a Ohrdruf, dove Karlsch ha raccolto dei campioni di terreno che sembrano confermare tracce di plutonio e uranio.
«Non voglio giudicare la ricerca di Karlsch, né scendere nel campo degli scienziati - dice oggi Romersa, che affiderà presto i suoi ricordi a un libro in uscita da Mursia, Uomini, armi e segreti della seconda guerra mondiale -. Io sono solo un giornalista che ha dimestichezza con il lato tecnologico della guerra. A quanto pare però i documenti di Karlsch confermano la mia testimonianza. Dopo quello che vidi, però, capii una cosa. Ed è questa: se i tedeschi avessero avuto ancora 7-8 mesi e se non avessero perduto i pozzi di petrolio in Romania, la guerra - mi creda - si sarebbe trasformata in qualcosa di ancora più crudo di quello che fu. Non ci sarebbero stati vincitori, ma si sarebbe giunti a un compromesso...».
E dopo, cosa accadde? «Quando tornai in Italia feci una lunga relazione a Mussolini, dove spiegai i mezzi che avevo visto, le armi in azione, la loro efficacia, le persone che avevo incontrato. Riferii tutto, insomma. Il Duce aveva un interesse enorme per la mia missione. Eravamo nel suo studio, e prese molti appunti».
Gli stessi che usò - molto probabilmente - per il suo ultimo discorso pubblico, il 16 dicembre 1944, al Teatro lirico di Milano.

Quando annunciò un imminente attacco tedesco: un attacco definitivo con bombe e missili di potenza straordinaria capace di distruggere città intere in un istante.
Luigi Mascheroni

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