Cade il quinto anniversario dell’invasione angloamericana dell’Irak e i numeri, alcuni almeno, sono inesorabili. Quasi quattromila soldati americani morti, più circa trecento di altre nazionalità; stime variabili ma drammatiche (cifre a cinque zeri) sulle vittime civili irachene. Inoltre, last but not least, la persecuzione dei sondaggi: con 64 americani su cento che oggi dicono «non è valsa la pena di andare in guerra in Irak».
Ma George W. Bush non è tipo da farsi condizionare. La sua è una scommessa con la Storia: egli vede se stesso, sostituendo nel canovaccio i personaggi chiave, nel ruolo che negli anni Ottanta fu di Ronald Reagan contro l’Impero del Male; sovietico allora, islamico oggi. Ieri si è dunque presentato al Pentagono con piglio ottimistico e ha tenuto un discorso che celebra il quinto anniversario dell’inizio della «sua» guerra come una vittoria. «La battaglia in Irak è stata più lunga, più dura e più costosa di quanto avessimo previsto», ha riconosciuto, ma «sono orgoglioso» dei risultati fin qui ottenuti, «i critici della guerra non possono più credibilmente argomentare che stiamo perdendo in Irak» e soprattutto «un ulteriore ritiro delle truppe non deve mettere a repentaglio i progressi fatti, che sono fragili e reversibili». Chiara frecciata a quanti (non nominati, ma è ovvio il riferimento a entrambi i candidati democratici alla Casa Bianca) «a Washington ancora oggi chiedono un ritiro».
Al momento in Irak sono schierati 158mila soldati americani, che entro l’estate dovrebbero scendere a 140mila. Il generale Petraeus, l’uomo che ha elaborato la strategia di collaborazione con i capi locali iracheni che sta mettendo alla corda Al Qaida, non vuole che siano di meno e il presidente pare intenzionato ad accontentarlo. «Se concedessimo la vittoria ai nemici - ha detto Bush - gli episodi di violenza, ora in declino, riprenderebbero ad aumentare e l’Irak finirebbe nel caos. Al Qaida riconquisterebbe le proprie roccheforti e sarebbe pronta a diffondersi fuori dai confini iracheni, con serie conseguenze a livello mondiale, attaccando l’America e le altre nazioni libere: noi non lo permetteremo».
Il presidente ha ricordato i punti cardine della propria visione, che da anni non si stanca di ripetere: «Rimuovere Saddam Hussein dal potere è stata la giusta decisione»; «I terroristi che uccidono persone innocenti nelle strade di Bagdad vorrebbero fare lo stesso nelle città americane: sconfiggerli in Irak rende meno probabile il doverlo fare a casa nostra»; «Sui costi della missione in Irak (circa 500 miliardi di dollari, n.d.r.) circolano stime esagerate», e comunque «sono costi necessari se consideriamo il costo di una vittoria strategica dei nostri nemici in Irak».
A Bush, come notavamo all’inizio, interessa poco che solo 29 americani su cento concordino oggi con queste sue considerazioni. Come ha detto ieri il suo vice Dick Cheney, appena rientrato da due giorni trascorsi a Bagdad, la strategia americana non può essere guidata dai sondaggi, ma dalla chiarezza degli obiettivi da raggiungere. La Storia giudicherà, e ci vorrà del tempo per stabilire se Bush vi rimarrà iscritto come un velleitario guerrafondaio o come un presidente lungimirante che ha evitato al mondo guai assai peggiori della guerra in Irak.
I numerosi partecipanti alle manifestazioni pacifiste indette ieri a Washington sono ovviamente arciconvinti della verità della prima ipotesi. Trentatré di loro sono stati arrestati dalla polizia per aver attraversato le transenne davanti all’Agenzia delle entrate. Il loro striscione denunciava che «i soldi delle tasse vengono spesi per la guerra».
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