Obama ha invitato il presidente palestinese Abu Mazen, quello l'egiziano Mubarak e il premier israeliano Netanyahu a Washington per l'inizio di giugno. È il rilancio della politica americana per il Medio Oriente. E, dopo otto anni di rapporti «molto speciali» con Gerusalemme, potrebbe essere l'inizio di un raffreddamento senza precedenti. Netanyahu non mostra fretta di andare a Washington, tanto che la riunione annuale dell’Aipec, la lobby pro israeliana accusata di influenzare troppo la politica statunitense, potrebbe tenersi per la prima volta senza la presenza di un premier israeliano.
Varie ragioni spiegano questa condotta. Anzitutto Netanyahu desidera attendere i risultati delle elezioni libanesi del 7 giugno. Se da queste elezioni uscirà una netta vittoria degli hezbollah sciiti e filo-iraniani, non solo Israele ma l'Occidente ed in primo luogo la Francia si troveranno di fronte ad un grosso problema politico e di sicurezza. Per quanto concerne Israele, Netanyahu avrà dopo queste elezioni miglior gioco nel chiedere a Obama come l’America intende reagire di fronte all’arrivo dell'Iran sulle sponde del Mediterraneo. I suoi missili - non solo più quelli a lunga gittata - mettono sotto tiro Israele e la Sesta flotta americana e di fatto cambiano gli equilibri nel Mediterraneo. Per questo il presidente americano deve tener conto delle possibili ricadute che un successo di fondamentalisti islamici anti israeliani potrebbe avere sulla politica interna americana. Nel 2010 ci saranno le elezioni per il rinnovo di parte dei seggi al senato dove i democratici vogliono conquistare la maggioranza e obbligare i repubblicani ad aderire alla strategia della «mano tesa» che Obama intende perseguire verso tutti gli avversari. Anche in considerazione della crisi economica, l'amministrazione democratica deve prepararsi sin dal prossimo novembre ad affrontare un elettorato in fibrillazione: aumenterà di conseguenza il peso specifico del voto ebraico.
La Casa Bianca - almeno così si pensa a Gerusalemme - non potrà esimersi dal dimostrare a Israele (ma anche all'Egitto e all'Arabia Saudita, avversari religiosi e politici dell'Iran) come intende contenere lo sviluppo nucleare di Teheran. Da questo impegno dipende una questione non meno importante e drammatica: l'eventuale decisione di Gerusalemme di agire, anche se necessario da solo, contro le strutture atomiche iraniane. Come ricordato su queste pagine, il capo di Stato maggiore Usa, ammiraglio Mullen, ritiene l'attacco israeliano più probabile con l'avvento al potere della destra israeliana.
Non si deve infine dimenticare che, a parte ogni altra considerazione politica, Netanyahu considera la risposta ebraica al pericolo iraniano un dovere storico, dettato dall'esperienza dell'olocausto, e la condizione «sine qua non» per collaborare a qualsiasi altra proposta americana di soluzione per la questione palestinese ( inutile parlare di due Stati quando uno è minacciato di scomparsa). Se l'appello alla distruzione di Israele continua ad essere un elemento della politica estera iraniana, come si è visto a Ginevra, esso diventa anche un fattore di forza morale.
Netanyahu non è il solo ad essere convinto, nel mondo ebraico e fuori di esso, che la ragione per la quale sei milioni di ebrei - che pure seppero mostrare la loro capacita combattiva contro i nazisti come partigiani e nel ghetto di Varsavia - si lasciarono portare quasi senza resistenza al macello, fu dovuta al fatto che essi stessi come il mondo civile non credevano che Hitler avrebbe praticato quello che predicava. Il premier israeliano spera di convincere Obama, quando lo incontrerà, che Israele, costi quello che costi, non permetterà al presidente iraniano di anestetizzare gli ebrei e il resto mondo come fece Hitler. Reagire anche contro la volontà di Washington rappresenta pertanto un interesse superiore di sopravvivenza e l’interesse politico di non deludere potenziali alleati come l'Egitto, l'Arabia Saudita e quegli Stati che temono l'affermarsi della potenza nucleare dell'Iran.
Del resto Netanyahu non è il solo capace di opporsi con successo alla politica di negoziazione a tutto campo della nuova amministrazione americana. Obama ha dimostrato alla riunione del G-20 , a quella della Nato come alla recente conferenza interamericana, di sapersi ritirare con eleganza davanti ai «no» che ha dovuto incassare. Dovrà accettare anche quelli di Israele.
Per cui non lo disturba avere accanto un ministro degli Esteri che non sempre si «può presentare in società» ma che sa esprimere i «no» di Israele in maniera chiara anche se poco diplomatica. Di questa opinione è anche il ministro degli Esteri siriano, che paragona Lieberman al suo predecessore, Tzipi Livni.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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