Iran, ventenne impiccato la sua colpa è essere gay

Accusato di violenza sessuale, era stato discolpato dalle vittime

L'hanno impiccato malgrado tutto e tutti. Le accuse di violenza sessuale erano vecchie di sette anni, fumose e approssimative. Il giudizio non era da meno. Le sue tre vittime avevano ritirato ogni denuncia, escluso ogni sua colpa, ma la corte aveva preteso la pena capitale. Di fronte a tanta sbrigativa severità persino l'ayatollah Hashemi Shahroudi, numero uno del potere giudiziario iraniano, aveva tentennato pretendendo una revisione della sentenza. Ma non è servito a nulla.
Makwan Muludzadeh, 20 anni, omosessuale è stato ucciso lo stesso. Anzi è morto prima del tempo designato. Due giorni fa, un mese prima dell'attesa revisione, l'hanno portato nel cortile del carcere, gli hanno stretto il cappio al collo. Quando ha smesso di scalciare hanno chiamato la famiglia, le hanno chiesto di portarselo via. Di lui bisognava sbarazzarsi in fretta, evitare che diventasse l'ennesimo, imbarazzante simbolo dello scontro tra le due anime del regime, quella pronta ad esigere condanne sbrigative e spettacolari e quella ancora decisa a difendere diritto e legalità.
La storia di Makwan, raccontata dal quotidiano riformista Etemad Melli, ha il sapore kafkiano di una beffa del destino, di una diceria trasformata da tempo e contingenze in sentenza atroce e imperdonabile. Tutto inizia sette anni fa a Paveh, un sobborgo di Kermanshah, il capoluogo delle province occidentali del paese. A quel tempo Makwan ha soli 13 anni. Un'età non diversa da quella dei tre ragazzini che, sei anni dopo, quando l'omosessuale Makwan diventa la vergogna del suo villaggio, raccontano di esserne stati le vittime. Quando vedono Makwan legato in groppa ad un asino, messo alla gogna, insultato, trascinato davanti ad una corte rivoluzionaria, capiscono di aver esagerato. Si rendon conto che l'aver trasformato il ricordo di semplici effusioni adolescenziali in un atto di sodomia o di violenza può costargli la vita. Ma le loro ritrattazioni sono parole al vento, bazzecole, lacrime nella pioggia. Nel paese in cui un presidente nega l'esistenza degli omosessuali una corte rivoluzionaria di provincia non può che tendere alla stessa suadente verità.
A Teheran i vertici del sistema giudiziario si rendono conto dell'errore, intuiscono che quell'ennesimo atto di giustizia sommaria rischia di gettare discredito sul paese. «L'11 novembre - scrive Etemad Melli - il capo dell'amministrazione giudiziaria di Kermanshah riceve l'ordine di sospendere la sentenza dall'ayatollah Hashemi Shahroudi». Ma l'ayatollah Shahroudi è in odore di eresia.

Ha già ordinato altre revisioni, ha già osato opporsi alle inflessibile e sbrigative regole pretese dai signori del nuovo corso. E così il suo intervento non fa che accelerare la fine. Due giorni fa, un mese prima della revisione, la botola del patibolo ingoia Makwan ed ogni pretesa di giustizia e verità.

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