Italia, è Pasqua: torna a vivere

La Pasqua d’Italia. La traduzione storica di Resurrezione è Risorgimento. E questo Paese ha bisogno davvero di riacquistare fiducia in un suo risorgimento. Ha bisogno di ritrovare una sua unità di destino, un suo disegno civile e culturale e i tre anni di tregua elettorale che abbiamo davanti, la forte maggioranza del governo e la necessità di tutti i partiti di andare in clinica per un check-up radicale, sono condizioni favorevoli per la ripresa. L’Italia ha bisogno di sentirsi comunità, come dice agli inglesi il leader conservatore Cameron, che sarà tra breve probabilmente il nuovo premier britannico. Laddove partì la rivoluzione liberista della Thatcher potrebbe ripartire per l’Europa la rivoluzione conservatrice, animata dall’idea di comunità, di mercato sociale e di tradizione.
L’occasione può essere il compleanno dell’Italia, i suoi 150 anni che scoccheranno il marzo prossimo. Quell’anniversario può essere il pretesto per rilanciare un progetto d’italianità con i mezzi del presente. Un progetto pop, per intenderci, come la pop music e la pop art, abbreviativo di popolare. Qualcuno, nella cabina di regia dei 150 anni, ha tentato di spostare l’attenzione dei festeggiamenti sul solito secondo risorgimento, ovvero la guerra civile del ’43. Ma di Novecento abbiamo fatto overdose, mentre il Risorgimento non si studia più neanche a scuola, dopo la riforma Berlinguer. Dobbiamo invece ripartire dall’Unità, che è più attuale della guerra civile. Se oggi, per esempio, discutiamo di federalismo e di Stato centrale, o di Nord e Sud, quei temi non ricalcano la lotta antifascismo-fascismo, ma ci riportano all’atto costitutivo del Paese, al Risorgimento. Dobbiamo ripensare quell’Unità e non la Resistenza, dobbiamo tornare al territorio e non al secolo delle ideologie.
Ma per partire col piede giusto, bisogna partire dalla realtà: l’Italia è in decadenza, il popolo italiano vive lo scoramento, gli italiani sono in fuga dal proprio Paese anche quando restano a casa. È una forma di emigrazione mentale, che è perfino peggio dell’emigrazione reale, perché li situa fuori dal proprio Paese, con la testa rivolta in un imprecisato altrove. C’è uno scoramento diffuso come una dolente tiritera. È inutile negarlo o attribuirlo solo ad un sordo gioco mediatico e ideologico che vuol gettare fango su questa precisa Italia, sotto questa guida. La propaganda c’è, l’uso fazioso del malessere pure, figuriamoci; ma il disagio non è pura invenzione per denigrare. C’è, si tocca con mano. Se fingiamo che non esista, poi non capiamo il resto. Dobbiamo avere la cruda franchezza di ammettere che il Paese è effettivamente sulla china del degrado, è spompato, è scorato.
La decadenza c’è e viene avvertita come tale. Ma non è onesto, non è veritiero, ricondurre la decadenza italiana a chi ci governa in questa fase. Primo, perché un governo non avrebbe la forza, seppur nefasta, di innescare un processo così profondo, vasto e radicale. Secondo, perché la decadenza italiana è frutto di un processo lungo e corrosivo, che a voler circoscrivere la portata alle presenti generazioni, fu innescato tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. Terzo, perché il disagio economico e sociale, aggravato negli ultimi anni, ha avuto nelle crisi internazionali e finanziarie, la sua ragione principale.
Quando Berlusconi promette grandi opere e grandi mutamenti strutturali, quando lancia la cultura del fare e la cultura dell’emergenza per consentire decisioni rapide e fattive, senza le estenuanti mediazioni che neutralizzano di solito l’efficacia, tenta di rispondere a questa inerzia diffusa, a questa inedia profonda, a questa accidia serpeggiante. Quando Berlusconi tenta iniezioni di fiducia nel Paese, invitando a sperare, a convincersi che il peggio sia passato, che il Paese ora sia in risalita, non dice tutta la verità ma cerca, con una santa bugia, di rincuorare il Paese e ridare fiato all’Italia. Tenta di reagire alla decadenza, rianimando un discorso pubblico. Perlomeno c’è uno sforzo a uscire dalla palude e dal deserto. E non è colpa della Lega se poi non c’è nessuno che con pari determinazione difenda l’identità nazionale e compensi le tentazioni autonomiste. Manca però un disegno generale del Paese, un progetto culturale e civile e vorrei dire ideale, salvo annunci, placebo, illusioni. Certo, la cultura dell’emergenza rischia poi di produrre procedure sventate, prive di controlli, che sono il pane preferito per i comitati di affari, i corrotti e i corruttori. Ma l’unico modo per smuovere le montagne, per snellire le procedure, sveltire la sostanza dei processi di ricostruzione era quello. E si è visto, a Napoli come all’Aquila.
Allora il problema del nostro Paese non si chiama Berlusconi. Si chiama decadenza. Si chiama sfiducia generale. Si chiama democrazia irresponsabile, dove manca ogni pur vago tentativo di pensare in senso nazionale; dove le carriere sorgono sulle ceneri dell’Italia e non sulla crescita italiana. Si chiama mancanza di selezione, di meritocrazia, per consentire l’elezione di classi dirigenti adeguate, la circolazione dei talenti, il dinamismo dei settori più strategici, come la ricerca, l’università, la burocrazia.
Sarebbe troppo facile pensare che questo Paese, liberandosi di Berlusconi e del suo governo, si liberi della decadenza. Non è onesto, non è veritiero pensare che questo Paese tornerà a fiorire se alla monarchia berlusconiana si sostituirà quel ceto di tirapiedi che armeggiano contro di lui, ma a volte anche nei suoi pressi. Quel ceto è la fotografia più deprimente della partitocrazia, dell’incapacità delle classi dirigenti, della mancata selezione sulla base dei meriti.

Non è di manette che ha bisogno l’Italia, non di leggi del sospetto; ma di aria libera e intelligenze costruttive, non mirate a frenare il prossimo ma a guidare la rinascita d’Italia. Insomma, dopo il voto, tocca ripartire dalla decadenza italiana per ripensare il futuro del Paese. Buona Pasqua di Resurrezione, Italia.

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