La jena esce allo scoperto: «Mordo di più la sinistra»

Barenghi fa outing: «Sono io il corsivista della Stampa. Fassino si lamentava, D’Alema s’infuriava. Veltroni? Il bersaglio numero uno»

da Roma

Da otto anni Riccardo Barenghi, ex direttore del Manifesto e ora editorialista della Stampa, è la Jena. Autore del mini-corsivo anonimo che ogni mattina fulmina qualcuno, a destra o - più spesso - a sinistra. E in occasione dell’uscita in libreria della raccolta delle sue battute («Jena», Fazi Editore), il suo giornale gli ha dedicato a sorpresa, a tutta pagina, un outing: «La faccia della jena. Il corsivista della Stampa si rivela».
Sei tu, dunque?
«A parte il naso deforme che mi hanno disegnato sulla Stampa sono io, sì».
Ma quando è nata la Jena, e perché?
«Nel 2000, quando ero direttore del Manifesto già da un paio d’anni. Avevamo cambiato la grafica ed era stato introdotto questo corsivo riquadrato in prima pagina, una vecchia tradizione del giornale in disuso da anni: ai tempi lo firmavano Aloisius, cioè Luigi Pintor o Dedalus, che era Umberto Eco. Quando lo abbiamo reintrodotto lo facevamo a turno. Però diventò ben presto un incubo: mi toccava girare per il giornale chiedendo “chi lo fa il corsivo oggi?“, e tutti scappavano. Allora ho detto: ok, lo faccio io e tanti saluti».
Perché Jena?
«Ovviamente perché doveva essere cattivo. Mi sono ispirato a John Carpenter e a Massimo D’Alema».
Prego?
«Ti ricordi Jena Plissken, il protagonista di 1997: Fuga da New York? Un mio cult».
Anche D’Alema è un tuo cult?
«Fu lui a definire i giornalisti “jene dattilografe”. Perfetto, mi sono detto. Ed è nata la Jena».
Per anni nessuno ha saputo chi fosse.
«Solo dentro il giornale, e pochi amici fuori. Per anni è stato un segreto ben custodito. Venivo bersagliato di domande e di supposizioni a ogni cena, ma tenevo duro. Poi col tempo la cosa è trapelata, almeno nel circolo giornalistico e politico. A parte Livia Turco, che l’ha scoperto qualche mese fa e mi ha fermato sbalordita, e io ero più sbalordito di lei. Ma il grosso dei lettori della Stampa non lo sapeva fino ad oggi. Alla mail di Jena arrivano ogni giorno messaggi tipo: “Vergogna! Abbi il coraggio di dire chi sei!”».
Chi te li scrive? Fassino? Veltroni? Berlusconi?
«Fassino si incazzava sempre come una bestia. Lo capisco, per anni, da segretario dei Ds, era il bersaglio numero uno. Telefonava al direttore della Stampa e si lamentava che sua madre torinese ci restava male. D’Alema si infuriò una volta che scrissi che mentre Rutelli, allora leader dell’Ulivo, parlava in aula alla Camera lui leggeva attentamente un libro. Fermò una collega del Manifesto e le disse: spiega alla Jena che non era un libro, era la rivista di Italianieuropei. L’indomani feci un’errata corrige per precisare cosa leggeva».
E Veltroni, che bastoni tutti i giorni?
«Finora non si è lamentato. D’altronde ora tocca a lui. Forse gli conviene dimettersi, per tante ragioni e anche perché così si risparmia la Jena».
Te la prendi più con la sinistra che con la destra. Perché?
«Giuro: tutti i giorni passo almeno due ore a sforzarmi di trovare una Jena sul centrodestra. Ma me ne vengono due al mese, non di più: mentre appena mi volto dall’altra parte ne trovo come se piovesse».
Sta per uscire anche un altro tuo libro, fa ridere anche questo?
«No, fa piangere. Già dal titolo: L’eutanasia della sinistra. Esce a metà ottobre e dice che l’unico vero erede di Gramsci è Berlusconi».
Questa è grossa.
«Ma è vero: è riuscito ad esercitare una propria egemonia culturale persino a sinistra, dove se non parlano male di lui non sanno che dire.

Basta vedere come è andata nel 2006, quando avevano la vittoria in tasca e sono riusciti praticamente a perdere, dimostrando di non aver capito un tubo del Paese e di essere ormai defunti».
Hai mandato il libro della Jena al Cavaliere?
«Certo, con una dedica: “Meno male che Silvio c’è...”».

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