Questione di gusti? Sarà. Ma è un fatto e la storia, fatti alla mano, lo dimostra che il sapore può più del potere e la gola più della gloria. È la tesi dello storico delle esplorazioni geografiche e di leggendarie ascensioni himalayane John Keay. Deliziosamente dimostrata lungo La via delle spezie (Neri Pozza, pagg. 366, euro 18) su cui, dal Millequattrocento, viaggiatori, conquistatori e mercanti si sono lasciati guidare dal fiuto dei profumi, il colore di foglie, gemme e essenze, il sapore di semi, gherigli e granelli dormienti dentro frutti come perle: rari più delloro e a prezzo doro rivenduti in Occidente.
Per dirne una, per una manciata di macis, la fragile sostanza rosso carminio che nasce dalla Myristica frangrans, i navigatori cinquecenteschi eran pronti ad affrontare 800 km di un nulla esteso a Nord della costa australiana e fatto dellacqua indistinta dei due oceani Pacifico e Indiano. Fino allisola di Banda: lunico posto al mondo dove crescesse spontaneamente la pianta della noce moscata. Costo e rischio della traversata ripagavano però profumatamente gli antichi avventurieri. Almeno quanto profumava laromatico ingrediente che, tornando, ne riportavano: imprescindibile per produrre la birra di Augusta in Germania, il pudding natalizio in Inghilterra e, alla lunga il Vicks VapoRub e la Coca Cola nellintero globo globalizzato.
È davvero così?, abbiamo chiesto allo studioso scozzese, straordinario narratore di quel che accade Quando uomini e montagne si incontrano, il libro culto sulla scoperta dellHimalaya tradotto, come il diario di viaggio delle spezie, da Lorenzo Scandroglio per Neri Pozza.
Lo stimolo estetico, dei sensi - olfatto e palato in primis - è più forte di quello politico?
«Sapori, profumi e anche i pigmenti colorati conferivano, dai tempi delle prime scoperte geografiche, anzitutto una distinzione sociale. Erano rari, esotici e costosissimi. Come ogni moda segnavano una differenza di status. Effimera finché si vuole, ma decisiva per il corso della storia. Sono pochissime le spezie che hanno unutilità. Alcune di esse furono impiegate in medicina, ma in quantità esigue. Servivano nella cosmesi, da rinfrescanti e deodoranti. In tutti i casi lumanità avrebbe potuto farne a meno. Per dire: il sale è un bene alimentare imprescindibile, ma è un minerale piuttosto diffuso. Il pepe, che tra le spezie è allorigine della più antica rete commerciale, non ha necessità dietetica. Dunque sì, fu il desiderio dei consumatori a stimolare le forniture di quei rari prodotti e lavventurosa ricerca delle loro fonti. Anche, ovviamente, la brama dei profitti. Insomma, leconomia poté più della politica. E la vanità più dellestetica».
Economia politica e colonizzazione: tema cruciale per uno studioso britannico? La Gran Bretagna non fu, storicamente, un impero potente alla conquista del mondo?
«È vero, ma sulla via delle spezie cedette il passo ad altre potenze. Romani, arabi, indiani, portoghesi, olandesi tentarono tutti di monopolizzare i commerci e si impegnarono a turno in qualche forma di colonizzazione. Ironicamente gli inglesi dovettero cedere il business dei droghieri ai Paesi Bassi, e concentrarsi su cotone, oppio e tè».
LInghilterra è unisola: una terra sul mare. È naturale che sia stata lacqua il terreno di conquista per gli inglesi?
«Come tutti i Paesi sullAtlantico, lInghilterra fu esclusa dai commerci mediterranei per 1500 anni. Poi, con la scoperta delle Americhe ebbe la sua rivalsa. Ma anche in età precolombiana, tradizioni e costumi anglosassoni sono segnati dallacqua, dalla pesca, dalla caccia alle balene...».
Allora comè che nasce la smania dellascensione in verticale: Quando uomini e montagne si incontrano? Si intende uomini inglesi e montagne asiatiche.
«Non solo asiatiche. In Gran Bretagna io vivo in montagna, nelle Highlands. E prima di scrivere, nel 1977, il best seller sulla storia delle esplorazioni himalayane, in Kashmir ero andato per pescare! Era il 1965. Ci sono tornato due anni dopo per sei mesi. Fu una pausa di riflessione, di solitudine. Da allora la montagna è per me, più che terreno di conquista, un luogo di ritiro. Fu là, però, che iniziai a scrivere. In tal senso lambiente dalta quota è sì propizio allesplorazione, ma nel senso della ricerca e dello studio».
Himalaya: che cosa evoca nei suoi ricordi?
«Fuoco di legna, belati di pecore, fischi di pastori, fame selvaggia e letti durissimi».
E nella memoria storica?
«È lequivalente indiano della Grande Muraglia cinese. Ma è una barriera più difficilmente sormontabile. Più aspri sono i contrasti fra le terre sui suoi due versanti. E più interessanti i pochi incontri politici avvenuti a dispetto di questa divisione».
E nella storia delle esplorazioni?
«Tra le arene delle esplorazioni novecentesche - Africa, Arabia, Sud America... - lHimalaya è quella che ha causato i maggiori, e ancora vivi, sconvolgimenti. Ma il più vasto massiccio montuoso del pianeta ha attratto più che i fondatori di imperi, gli scienziati: botanici e geologi. E poi filosofi, romantici, eccentrici...».
E nella leggenda, nella letteratura, nel mito?
«Per indiani e cinesi, come per gli europei, lHimalaya è avvolta da unaura spirituale. È il classico esempio di geografia sacra. Per gli indù è la dimora degli dei. Shiva abita il Monte Kailash. E sua moglie, Parvati (parvat, parbat = montagna) ne è la Signora. Per i buddhisti è luogo di ritiro e meditazione. Agli europei è sempre parso naturale che regni come il Tibet o il Bhutan fossero retti da monaci. Altezza, eternità e sacralità sono sinonimi».
E questa perenne sacralità che volto assume nel tempo, in questi tempi di turismo, mercato, tecnologia, comunicazione globale?
«Sono luoghi da tutelare e depoliticizzare. LUnesco li preserva come patrimonio dellumanità, ma mi piacerebbe una più attiva responsabilità.
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