Quando hanno distrutto le Torri gemelle, l'11 settembre 2001, i terroristi si sono infilati nella nostra mente. È stata la forza dell'immagine, molto più del numero delle vittime, a permettere loro di «penetrare nei nostri sogni», cioè fare quello che fa la letteratura. È così che i terroristi sono diventati «gli scrittori del nostro tempo», dice Karl Ove Knausgård. E adesso che un virus sta cercando di scrivere il nostro, di tempo, è bello leggere le parole di un vero «scrittore del nostro tempo».
Il norvegese Karl Ove - dopo quattromila e centoquindici pagine trascorse in sua compagnia, si può osare approcciarlo col nome proprio - è un personaggio tutt'altro che social, in ogni senso, come dimostra il titolo del suo capolavoro, La mia battaglia, sei romanzi (tutti pubblicati da Feltrinelli) di cui ora si può gustare la Fine (nessuna fretta di concludere, sono 1.270 pagine, euro 27). Che cos'è la «battaglia» di Karl Ove? Quella di tutti noi: la ricerca dell'identità, il tormento di riuscire a trovare una autenticità, un significato (per Knausgård, questo avviene nello scrivere), la costruzione dell'io a partire da una famiglia in cui cresciamo e con la quale dobbiamo fare i conti (per lui, la figura dominante del padre), il buio in cui questo stesso io può sprofondare, un buio vero come il cielo dell'Artico in cui Knausgård è intrappolato per mesi terribili ma, anche, quello dell'alcol, della frustrazione, del senso di inadeguatezza, dell'autodistruzione (per amore si taglia la faccia due volte); e poi le riflessioni sull'arte, sul passato e sul nazismo (il titolo La mia battaglia è lo stesso del Mein Kampf di Hitler, e Knausgård affronta anche questo, lo analizza per centinaia di pagine meravigliose in cui attraversa la cultura europea dell'ultimo secolo). C'è l'amore, per la moglie Linda e i loro tre bambini. Ci sono Amleto e Gesù, che affrontano il buio «ad occhi aperti». Ci sono l'io, con la sua pretesa unicità, e il noi, la società, che avalla questa pretesa e così la rende vana, mentre oltretutto tenta di eliminare ogni differenza in nome dell'«uguaglianza». Ci sono il terrore di superare il limite, il senso di colpa (scavando così tanto dentro la propria esistenza, mette a nudo sé e i propri cari, e si pone una domanda: perché tanta vergogna di raccontare la nostra catastrofe?), la paura di vivere.
Tutt'altro stile dal vortice esistenziale di Knausgård per Olive, ancora lei (Einaudi, pagg. 268, euro 19,50), in cui Elizabeth Strout fa rivivere la bisbetica indomita Olive Kitteridge, tanto piena di umanità quanto apparentemente distaccata. In questo caso, l'essenzialità è la chiave per accedere a piccole e consolatorie illuminazioni del quotidiano.
La russa Marija Stepanova invece si affida a lettere e diari per fare un salto indietro nel tempo, tra le vicende della sua famiglia e le tragedie del Novecento. Perché è grazie alla Memoria della memoria (Bompiani, pagg. 460, euro 22), e alla letteratura che la racconta, che possiamo vivere nel presente.
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