Obama srotola il tappeto rosso al mondo islamico e soprattutto all’Iran. E molto più velocemente del previsto. Pochi giorni fa aveva dichiarato che avrebbe tentato prudentemente di dialogare con Teheran, ma martedì sera, poche ore dopo l’insediamento, ha pubblicato sul sito della Casa Bianca il programma di politica estera, che oltre a ribadire posizioni note, annunciava, quasi sotto tono, una novità sensazionale. Altro che caute aperture, intende avviare «franchi e diretti rapporti diplomatici con l’Iran» e, attenzione, «senza precondizioni».
Negli ultimi tempi anche l’Amministrazione Bush si era detta pronta a sedersi a un tavolo con gli ayatollah, ma solo dopo aver ottenuto una rinuncia esplicita ai programmi di arricchimento dell’uranio e una condanna inequivocabile del terrorismo. Ora invece Hillary Clinton, che ieri è stata accolta trionfalmente dai funzionari del Dipartimento di Stato, avrà carta bianca. Lo scopo resta lo stesso: impedire che Teheran abbia l’atomica e convincerla a interrompere i finanziamenti all’ala militare di Hamas e ad Hezbollah, ma potrà essere raggiunto «nell’ambito di un accordo complessivo». Obama ha fatto sapere che il nuovo inviato per il Medio Oriente arriverà il più «presto possibile». Washington è pronta a offrire all’Iran aiuti economici, la fine delle sanzioni, l’ingresso nel Wto e dunque il libero accesso al mercato del petrolio, che permetterebbe all’asfittica economia iraniana di trovare nuova linfa. Si precisa così il senso delle frasi pronunciate durante il discorso d’insediamento, quando aveva offerto «al mondo musulmano una nuova strada basata su interessi e rispetto reciproci» e ai leader ostili all’Occidente «una mano tesa» se loro «scioglieranno il pugno».
Tutto si lega. Ieri Obama ha firmato il decreto per chiudere la prigione di Guantanamo e vietare le prigioni segrete della Cia nonchè ogni forma di sevizia durante gli interrogatori. «L’America non tortura», ha dichiarato solennemente, rinfrancando chi ha sempre visto nell’America un baluardo di civiltà, saldamente ancorato ai valori della democrazia e della Costituzione. Quell’America è tornata. Bravo Obama, la decisione gli fa onore, ma ha anche una forte valenza politica.
Le misure contro il terrorismo avevano sconcertato l’opinione pubblica occidentale e, soprattutto, offeso il mondo arabo. Abolendole il nuovo presidente rompe definitivamente con i metodi di Bush e dimostra al mondo che ci si può fidare della sua parola.
Non è un caso che i primi a cogliere il cambiamento siano stati gli israeliani. La Casa Bianca ribadisce che «gli Usa non si allontaneranno mai da Israele, che resta il primo e più fedele alleato in Medio Oriente»; ma i toni saranno diversi e Gerusalemme sa che Obama non esiterà ad esercitare pressioni. Anzi, lo ha già fatto. È molto verosimile che l’improvvisa conclusione del conflitto a Gaza sia stata energicamente suggerita a Olmert dal governo americano. Con quale credibilità Barack avrebbe potuto proporsi come paladino di un’America di pace se l’offensiva israeliana fosse stata ancora in corso?
Non è un caso che persino l’Amministrazione Bush si fosse astenuta al Consiglio di sicurezza e nemmeno che Obama abbia chiamato il presidente palestinese Abu Mazen prima di qualunque altro leader mondiale e soprattutto prima del premier israeliano Olmert.
E leggendo in controluce la stampa americana, non è difficile prevedere un’altra svolta, quella con Hamas. Ieri il New York Times descriveva il dilemma del nuovo presidente che deve decidere se «parlare con l’organizzazione islamica o isolarli».
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