L’America ricomincia ad assumere

L’America ricomincia ad assumere

Qualcosa si muove nel mondo del lavoro Usa, anche se con una forza ancora insufficiente a spostare il macigno della disoccupazione, il cui tasso è rimasto inchiodato in marzo al 9,7%. Le cifre diffuse ieri sono comunque un primo passo nella giusta direzione: indicano che in marzo sono stati creati 162mila nuovi posti, il dato migliore da tre anni, a conferma dell’interruzione di quel ciclo distruttivo per l’occupazione che era stato generato dalla crisi. Un confronto serve a mettere meglio a fuoco l’inversione di tendenza: nel primo trimestre dello scorso anno, quando la Casa Bianca cercava di tamponare falle aperte ovunque, l’America bruciava una media di oltre 750mila posti di lavoro al mese; tra gennaio e marzo del 2010, il saldo tra assunzioni e licenziamenti è stato invece positivo per 54mila unità. Il Paese «sta cominciando a svoltare l’angolo - ha commentato Barack Obama - ma la strada è ancora lunga. Ci vorrà ancora tempo - ha aggiunto - per raggiungere la crescita sostenuta di cui il Paese ha bisogno». Ma quello di oggi, ha osservato il presidente «è il segnale più forte che la ripresa economica è cominciata a passo spedito e che c’è meno bisogno di sostegni del governo».
La prudenza della Casa Bianca è giustificata. E non solo perché i dati occupazionali rappresentano una sorta di roller coaster statistico a causa della forte volatilità. Il fatto è che l’America deve ancora scalare l’intera montagna dei troppi jobless, quella degli otto milioni lasciati a casa dalla recessione per un totale di 15 milioni di disoccupati, circa il doppio rispetto a prima del dicembre 2007. Gente alle prese con consumi sempre più tirati, con bollette da pagare, magari con mutuo a carico. Operai e colletti bianchi senza impiego, ma anche top manager (l’ultima crisi ne ha mandati a spasso il 15% in più rispetto a qualsiasi altra recessione). Famiglie. Cittadini. Elettori. Potenzialmente scomodi nell’anno delle elezioni di medio termine per un Obama in calo di consensi.
Con un mercato del lavoro ancora debolissimo, c’è chi, in attesa di tempi migliori, ha preferito accettare lavori meno qualificati; ma molti hanno finito per ingrossare le file dei disoccupati di lungo termine, cioè di quanti non si presentano in fabbrica o in ufficio da più di sei mesi, o si limitano a lavoretti part-time. Sono tanti, oltre 6,5 milioni, abbastanza per stabilire un record negativo. Sono gli “invisibili” d’America: infatti non sono considerati nel tasso ufficiale di disoccupazione, calcolato in base alle persone senza un posto, ma che sono disposte a lavorare e che hanno attivamente cercato un impiego nelle quattro settimane precedenti la rilevazione inviando curriculum, contattando aziende e rispondendo a offerte. Se gli “invisibili” fossero inclusi nel computo, la disoccupazione salirebbe al 16,9%, un livello inaccettabile anche se meno drammatico rispetto al picco del 17,4% raggiunto lo scorso ottobre.
Eppure, oltre ai posti creati in marzo, è possibile cogliere qualche altro segnale positivo in questo inizio di primavera. La settimana lavorativa media è aumentata a 34 ore, dalle 33,9 di febbraio. È un’indicazione di cui tener conto, perché generalmente i datori di lavoro aumentano le ore lavorative prima di effettuare nuove assunzioni.


Per poter incidere sulla disoccupazione servirebbe però una crescita economica attorno al 5%, un ritmo che l’America quest’anno non potrà tenere. Casa Bianca e Fed hanno infatti già messo in conto che sarà impossibile abbassare sotto il 9% il tasso dei senza-lavoro.

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