L’amore che diventa odio è capace di tutto

L’odio per il coniuge può divorare l’amore per i figli, fino al punto di mettere in atto un delirio di rovina.
La storia di Matthias, il padre che si è ucciso sotto un treno, dopo avere fatto sparire le figlie e avere attuato un vero e proprio stalking post-mortem a danno dell’ex moglie (destinataria di cartoline e buste con denaro, ma, contemporaneamente perseguitata dal silenzio incomprensibile sul destino delle figlie) crea sdegno e sgomento.
Tuttavia, malgrado le peculiari e crudeli modalità di attuazione della vendetta e della violenza in questo caso, l’orrenda sequenza risponde a una dinamica di violenza coniugale evidentemente insita nell’umanità: una storia analoga è tramandata dalla mitologia greca, con protagonista Medea che, per vendicarsi del marito Giasone e impedirgli la prosecuzione della stirpe, uccide i propri figli.
L’Italia registra una strage famigliare ogni due giorni: a uccidere sono padri, madri, figli e ogni volta l’orrore, ma anche l’incredulità, si uniscono alla compassione disperata per le vittime. Creature piccole e indifese vengono soffocate, annegate, picchiate a morte dalle mamme che avevano dato loro la vita; amorevoli genitori sono soppressi dai figli con lucida e impietosa determinazione.
Come non ricordare i fratellini Brigida, di cui non si seppe nulla per quindici mesi, fino a scoprire che il padre gli aveva avvelenati con il gas e poi sepolti in un giardino? Per odio verso la moglie che aveva voluto la separazione.
La famiglia è il luogo delle emozioni più belle e più forti e dove, tuttavia, avvengono le tragedie più grandi.
Il disagio famigliare è, all’evidenza, un problema mondiale, ingiustamente trascurato: l’idea generale è che i delitti e le stragi domestiche siano effetto di follia e di devianza. Non è così. Il male e la violenza possono certamente essere innati e patologici nell’individuo, ma vengono sottovalutati, coltivati o esaltati nella famiglia. Quando non funziona come dovrebbe.
Spesso la violenza esplode, dopo essere stata per anni tenuta sotto la cenere da formalismi e dinamiche devianti o oppressive. È facile il rientrare ogni sera nella propria abitazione e allentare qualsiasi inibizione o esprimere malamente frustrazioni e angosce senza filtri. Fuori, nella società, bisogna essere perfetti e controllati. Dentro casa, ci si può lasciare andare, ma anche coltivare invidie e gelosie nel silenzio. E così, nel tempo, sentimenti oppositivi e cattivi si stratificano o si esprimono in piccoli crimini quotidiani, che rimangono nascosti o perdonati. Perchè la casa è il luogo dell’impunità.
A volte il divorzio è l’unica terapia che salva i componenti della famiglia malata o malandata; si evita in tal modo la morte psichica o la strage.
Tuttavia, se i coniugi non sono capaci di gestire l’abbandono, se non sanno trasformare e riformulare i brandelli dei sentimenti offesi, se non riescono a dimenticare la coniugalità offesa, in favore dell’allenza genitoriale, è sempre in agguato il tragico epilogo di una storia cominciata per amore e con amore.
Un sentimento potente, ambivalente, l’amore. Che dà gioia, ma si deteriora facilmente; si avviluppa sugli altri, fino a soffocarli e trasformarli; se c’è, è spesso trascurato; quando non c’è più, è invocato sguaiatamente o disprezzato. Oppure, per mantenerlo vivo, si trasforma in odio, invidia e rabbia distruttiva. Di sè e degli altri.
Nella scena giudiziaria sono frequenti le separazioni estreme, che mostrano il perdurare della relazione ormai ammalatasi e inguaribile: e, così, per anni, c’è l’instabilità devastante del conflitto coniugale, che porta danni agli infelici genitori e figli, tra processi civili e denunce penali, dispetti, vendette, sabotaggi. Territorio di guerra nel quale tutti, avvocati, psicologi, giudici, investigatori, medici, e perfino baby sitter, vengono usati dai coniugi contendenti per ferirsi possibilmente a morte.
Fino all’omicidio reale del coniuge, al suicidio, allo sterminio dei figli.
L’apice dell’odio verso l’ex coniuge non più posseduto né compartecipe, lo si esprime proprio infierendo sui figli, usandoli, vivi o morti, per avere l’ultima parola per fare l’ultimo gesto.

Per autodecretarsi la vittoria più feroce e sanguinaria, nel disprezzo assoluto dell’amore, e della vita, propria, dei figli e dell’altro.
Il sopravvissuto, secondo l’idea delirante di onnipotenza del criminale e suicida, ha così «meritato» la pena più grave e inestinguibile: scontare, vivendo, il dolore della morte dei figli.

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