L’analisi Il patto tra Nord e Sud non regge più. E l’Italia rischia

Nascosta dietro un paravento di retorica, contenuta dalle fragili dighe del «politicamente corretto», tamponata con bende tricolori, c'è un'onda che si gonfia, cresce e salta fuori da mille crepe. Ricolfi ci ha scritto un libro colto e beneducato, l'Economist ci ha fatto una cartina con la penisola tranciata da un largo braccio di mare. L'onda grida che ci sono almeno due Italie che fanno sempre più fatica a restare assieme.
Finché il frigorifero era pieno, poco importava chi lo riempiva e chi ci attingesse «a gratis» per i propri generosi spuntini. Ora le provviste scarseggiano e in famiglia scoppiano liti su chi si fa i panini più imbottiti e su chi li paga. In questi giorni - complice la crisi dell'euro - la magagna salta fuori da tutte le parti: sulla Repubblica, Diamanti la imbelletta di percentuali e opinioni, Il sole-24 ore ammette contrito che «Due euro sono meglio di uno» e non si riferisce al semplice dato matematico, Caracciolo si aggrappa alla prudentissima metafora dell'europlus.
Stupisce Enrico Letta che, con toni inusuali fuori dal prato di Pontida, accusa Campania, Sicilia e il Meridione meno virtuoso di impedire al resto d'Italia di veleggiare sulle creste delle statistiche europee del benessere. Insomma, pur sottovoce, con metafore timide o spudorate, viene fuori una realtà inquietante: se non si cambiano radicalmente le regole di ingaggio del vivere comune, l'italico sodalizio salta per aria e sono guai per tutti, per chi oggi dà perché non sarà più in grado di farlo, e per chi riceve perché non riceverà più un tubo.
Una cosa sono tutti costretti ad ammettere a bocca storta: che la Lega l'aveva detto tanto tempo fa, costruendo principalmente su questo le sue fortune e i suoi successi. Forse negli ultimi tempi l'argomento è stato un po' messo in disparte ma non ha mai cessato di infiammare la sua base, di indignare l'esercito di leghisti e di ex leghisti che ricordano che il primo articolo dello statuto del partito dichiara suo ineludibile obiettivo «l'indipendenza della Padania».
Quella del radicale cambiamento dell'architettura istituzionale è una bandiera che - ben sventolata - può oggi raccogliere attorno a sé un numero insospettabile di padani e di italiani. In particolare, al momento dell'adozione dell'euro, una delle menti più lucide del padanismo, Giancarlo Pagliarini, aveva ripetuto fino alla stanchezza che solo il Nord avrebbe dovuto aderire alla nuova moneta e che il Meridione avrebbe dovuto tenersi la lira, giocando sui cambi per difendere e rafforzare la propria concorrenzialità di mercato. Quasi tutti avevano accolto allora l'idea come una fastidiosa stravaganza, salvo oggi venire fuori con considerazioni e prospettive che la riprendono pressoché integralmente.
Ci sono almeno due Italie che da sempre sono diverse e distanti fra di loro, e che l'unità politica e un enorme trasferimento di risorse non sono riusciti ad accostare di una spanna. Anzi, con la crisi generale, il divario aumenta a una velocità ben superiore al tranquillo avvicinamento fisico di otto millimetri l'anno della costa pugliese verso quella albanese, che fanno della carta dell'Economist uno scenario di sinistro realismo simbolico ma di scarsa attualità geologica.
L'atteggiamento più responsabile sarebbe di prenderne atto e di trovare soluzioni concrete che evitino traumi, drammi e catastrofi generali. Salvo quelle della Lega, tutte le altre proposte suonano blande, più finalizzate a rinviare i problemi che a risolverli: in particolare è sempre il progetto delle macroregioni di Miglio a essere quello più efficace e realisticamente percorribile.


Un modo davvero responsabile e positivo di celebrare i 150 anni dell'unità politica sarebbe di accettare il fallimento dello schema centralista e ricostruire lo Stato su basi totalmente diverse che non rechino danno alcuno alle persone per bene. Meno sfilate e retorica, e più patriottismo vero: e cioè fare il bene della propria gente.

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