L’analisi Quel trattato non è un totem Se cambia diventa più credibile

Quando il Trattato di Schengen fu firmato nel lontano 1985, solo i rappresentati di 5 Paesi erano a bordo del battello fluviale «Principessa Marie Astrid», che navigava placidamente sulla Mosella: Francia, Germania Ovest (si chiamava ancora così), Belgio, Olanda e Lussemburgo. Rimasero in 5 per i successivi dieci anni, in mezzo a molti dubbi da parte della Commissione Europea e degli altri Paesi membri circa l'opportunità di abolire i controlli alla frontiera. Solo nel 1997 il Trattato di Schengen, fino ad allora un accordo «tra privati», entrò far parte dell'acquis communautaire, cioè di quel corpo di norme che regolano la vita dell'Unione.
Oggi infatti non si parla più di un «trattato» ma di un'area Schengen, di cui fanno ormai parte 25 Paesi e 400 milioni di cittadini. Non c'è dunque una sacra pergamena chiamata Schengen ed esposta alla pubblica venerazione nella bacheca di un museo come la Costituzione Americana. Si tratta piuttosto di un complesso di regolamenti in continua evoluzione che hanno dato vita a uno dei pochi effetti tangibili dell'appartenenza europea agli occhi dei cittadini: viaggiare senza passaporto, poter scegliere dove lavorare e mettere su famiglia, senza visti e senza permessi.
Il processo di allargamento dell'area Schengen è durato sino ad oggi, con Paesi ancora in attesa di aderire - Bulgaria, Romania - e Paesi che hanno sempre scelto di restarne fuori, la Gran Bretagna e l'Irlanda. Si è trattato di un percorso accidentato, fatto di stop and go, di dubbi e ripensamenti. Partito peraltro in un'altra epoca e in un'altra Europa. Nel 1985 gli immigrati extraeuropei nel vecchio continente erano circa 10 milioni, oggi si valuta che siano circa il quadruplo. Nel 1985 non era ancora caduto il muro di Berlino, l'Europa era congelata in un inamovibile status quo: aree di influenza, grandi potenze, guerra fredda tenevano uomini, popoli e idee chiusi al loro posto e in forzoso equilibrio.
Poi tutto è cambiato, prima nella stessa Europa con lo scongelarsi dell'Est comunista e poi nel mondo fino alle rivoluzioni arabe dei giorni nostri. Se non ci fosse in ballo una questione politico-ideologica diffusa un po' in tutta Europa, per cui le forze conservatrici vengono tenute a bada con accuse di razzismo e xenofobia, a nessuno dovrebbe sembrare scandaloso se dopo 25 anni di vita, e tutto quello che è successo nel frattempo, qualcuno propone di rivedere le regole di Schengen. Invece, Sarkozy e Berlusconi prima e il governo danese poi sono stati messi alla pubblica gogna per attentato al sogno europeo. Italia e Francia sono state accusate di lesa maestà vero il dettato di Schengen per aver scritto una lettera alla Commissione Europea dove si chiedeva la possibilità del ripristino temporaneo delle frontiere interne e soprattutto una maggiore vigilanza dei confini esterni; la Danimarca è stata accusata - come scriveva ieri Repubblica - di voler erigere un «muro anti-stranieri». Mentre la richiesta di Copenaghen era quella rafforzare i controlli doganali anti-crimine, già previsti da Schengen, sul ponte di Öresund che collega Danimarca e Svezia.
In realtà esattamente di questi temi, e senza scandalo, hanno discusso i 27 ministri degli interni riuniti ieri a Bruxelles.

Dove le richieste italo-francesi sono state lette per quello che sono: un tentativo di proteggere e rafforzare Schengen e la sua credibilità dalle nuove minacce e dai nuovi pericoli globali. Lo scopo è quello di adattare uno strumento efficace ma invecchiato alle mutate condizioni del tempo, non di tradire principi eterni e intangibili che non attengono alle cose umane.

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