L’anguria? In città ormai è un frutto proibito

È il frutto proibito dell’estate 2009. Come se affondare mezza faccia nella succosa fetta ghiacciata di cocomero, fosse diventato sconveniente, demodé. I cocomerai che si spartiscono il mercato del gelo nel torrido deserto d’asfalto milanese sono solo quattro, ognuno con un po’ di dehors attorno al chioschetto e qualche tavolino di plastica sotto l’immancabile ombrellone. Tutti e quattro propongono il classico fettone di anguria (anche mezzo chilo) allo stesso prezzo di 3 euro e 50: un vero e proprio "cartello della cucurbitacea" imposto dalle spese vive (elettricità, acqua corrente, stoviglie usa e getta, ghiaccio ma soprattutto l’occupazione di suolo pubblico che costa mediamente 3mila 500 euro all’anno).
L’elenco è presto fatto: Antonio Borromeo, aria vispa e baffoni spioventi, lavora nella sua Oasi del Fresco in piazza Po; Giacomo Piccolotto, è gestore di un baracchino in viale Richard, angolo via Cottolengo; poi ci sono i sardi Sergio ed Efisio in un elegante baretto-chiosco posizionato sullo spartitraffico di corso Sempione 32, quasi di fronte alla Rai; e infine c’è Luigi Pellegrino che da 40 anni taglia cocomeri e meloni all’angolo tra piazzale Brescia e via Lorenzo di Credi. Stop. Se in piazza Po, oltre ai comuni mortali confluisce la "vipperia" agostana di Milano (Greggio, Iacchetti, Diego Della Palma e altri) in viale Richard sono le auto di passaggio a farla da padroni, mentre il baretto di corso Sempione, che serve pure cocktail e piatti vegetariani, è frequentato tra gli altri dai collaboratori di Radio Deejay. Il botteghino di piazzale Brescia, infine, è famoso per annoverare frequenti visite da parte di attori e calciatori. Ogni chiosco lavora dal primo pomeriggio fino alle due, le tre di mattina tagliando in media 30 belle angurione mantovane o emiliane al giorno (le più grosse, fino a 40 chili cadauna, vengono da Novellara, terra natìa dell’indimenticato Augusto Daolio, cantante dei Nomadi).
Però a chiedergli il perché a Milano siano rimasti solo loro, nessuno dei quattro ha una risposta univoca. In realtà tutto inizia nel 2001. Quando una delibera del Comune stabilì che non sarebbero più state concesse nuove autorizzazioni. A dare la definitiva, ulteriore spallata ai cocomerai di Milano, è però la Asl che nel 2004 chiude tre chioschi per carenze igieniche ed emette nuove disposizioni molto rigide. Si legge tra l’altro nel regolamento: «I chioschi devono essere in muratura o legno con pavimenti di materiale lavabile e costruiti lontano da fonti di insalubrità o insudiciamento». Inoltre devono avere «Impianti di acqua corrente potabile, idoneo sistema di raccolta dei rifiuti solidi e di canalizzazione e smaltimento dei rifiuti liquidi». Indispensabile anche la dotazione di servizio igienico. Fine della spontaneità e lenta agonia per i circa 50 operatori che fino allora avevano presidiato l’estate milanese (chi non ricorda il camioncino dei cocomeri fermo all’angolo, con tavolini e sedie pieghevoli messe tutt’intorno alla bell’e meglio?).
Oggi i quattro venditori superstiti combattono la guerra del cocomero a suon di qualità contro lo strapotere dei supermercati che vendono a 95 centesimi il chilo: «Solo che al supermercato puoi prendere la fregatura - dicono in coro - mentre da noi qualità e giusta maturazione sono sempre assicurate». Il signor Pellegrino, di piazzale Brescia, quando finisce la stagione chiude il chioschetto dei cocomeri e apre quello dei fiori che è proprio lì accanto.

Oltre a meloni e angurie prepara per la clientela più affezionata anche un delizioso piatto di frutti misti con un gusto innato per la composizione e una bella grattugiata di ghiaccio tritato su tutto: «Sono contento perché gli affari non vanno malaccio - dice - e poi quest’anno vedo il ritorno di parecchi giovani che preferiscono l’allegria di una fetta d’anguria all’esaltazione dell’alcol».

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