Con l’arbitrato volontario non si tocca l’articolo 18

La sostituzione dell’arbitrato fra le parti alla causa per le controversie di lavoro avversata dalla solita Cgil e dalla sinistra dirigista è una grande vittoria dello spirito riformista nel campo del lavoro. Quello dell’arbitrato volontario è un principio che era contenuto nei progetti di Marco Biagi riguardanti la modernizzazione dei contratti di lavoro. Ma soprattutto esso è un principio storico del socialismo riformista di Filippo Turati, avversato già allora dai socialisti marxisti che parteggiavano per il sindacalismo rivoluzionario e che divennero poi comunisti.
Non stupisce, quindi, che la Cgil ripudi l’istituto dell’arbitrato nelle contese del lavoro che Turati aveva elogiato con queste parole: «L’arbitrato è considerato uno strumento educatore di tanto superiore ai rozzi arnesi fin qui immaginati da conservatori e da rivoluzionari per risolvere le questioni del lavoro, di quanto una macchina moderna è superiore all’ascia di selce del selvaggio».
Un processo del lavoro dura normalmente cinque anni prima della sentenza. L’arbitrato, deciso dagli arbitri della controversia scelti dalle parti, dura pochi mesi, perché il lodo deve essere emesso entro il termine di venti giorni da quando è iniziata l’udienza di discussione della controversia, mentre la nomina dei tre arbitri, uno per ciascuno da parte del lavoratore e del datore di lavoro e uno scelto di comune accordo, deve avvenire entro un termine molto breve e altrettanto breve è quello concesso alle parti per presentare le loro memorie.
L’affermazione che con esso il lavoratore è meno protetto che con il tribunale, dunque, è sbagliata. Innanzitutto il lavoratore sceglie uno dei tre arbitri e ha diritto di indicare o porre il veto al presidente, che viene indicato di comune accordo. Inoltre per un lavoratore una controversia che dura cinque anni e che può risolversi con la sua sconfitta è una strada difficile da percorrere. E d’altra parte anche per le imprese, che dispongono di un proprio ufficio legale o comunque del consulente dal lavoro, comunque, queste procedure costituiscono una considerevole complicazione. Si è voluto affermare che il ricorso all’arbitrato danneggia il lavoratore perché egli deve sostenere le spese per l’arbitro che ha scelto e di parte di quelle per il presidente del collegio, scelto di comune accordo, con il datore di lavoro. Anche questa affermazione non risponde al vero, in quanto presso il sindacato è costituito un fondo per le spese arbitrali. Soprattutto è errata la tesi secondo cui in questo modo viene aggirato l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori sui licenziamenti. Infatti l’arbitrato viene deciso sulla base della legge e se le parti vogliono secondo equità, vale a dire con il buon senso. Ma se il lavoratore non vuole che la decisione sia presa secondo equità e preferisce che sia presa unicamente in base alla legge, nel suo formalismo, egli può rifiutare che il lodo arbitrale sia fatto in modo equitativo. È noto che alcuni magistrati del lavoro sono faziosi. Un lavoratore che opta per la tutela dei suoi diritti da parte di un organo di sua fiducia e non da parte di un giudice fazioso ha, con il datore di lavoro, un rapporto fiduciario che va a vantaggio suo e dell’impresa.
Si afferma spesso, da parte della sinistra, che essa è pervasa di riformismo e di spirito liberale. Ma la posizione che essa ha assunto, non può certamente definirsi riformista, perché essa cozza contro la affermazione di Filippo Turati. E non può certamente definirsi liberale o liberaleggiante, in quanto essa non vuole lasciare all’iniziativa delle parti del contratto il compito di decidere amichevolmente sulle proprie controversie. La complicazione delle procedure e la rigidità dei rapporti di lavoro sono tra le cause indicate nel Rapporto mondiale sulla competitività per cui l’Italia si trova nella parte bassa della graduatoria e, per cui, ci sono scarsi investimenti delle multinazionali in Italia.

Ci si lamenta del fatto che da noi la produttività non sia al livello degli altri Paesi, che in Italia non ci siano abbastanza investimenti, che il tasso di crescita del nostro prodotto nazionale sia inferiore alla media di quelli degli altri Paesi industrializzati. Ma quando si cercano di fare dei miglioramenti in questi campi, ecco che i dirigisti impegnano l’ascia di selce del selvaggio.

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