L’arcipelago degli sconosciuti

I sorrisi, i silenzi, le fobie, il superlavoro, le mode: un saggio per capire la mente di un Paese enigmatico

L’arcipelago degli sconosciuti

Sono un caso a parte. Nel bene e nel male. Ogni volta che abbiamo a che fare con loro, per citare il titolo di un noto film, abbiamo l’impressione che qualcosa sia andato Lost in traslation. Noi parliamo e loro stanno zitti, loro s’inchinano e noi li tocchiamo imbarazzandoli, noi andiamo su tutte le furie perché non danno mai una risposta chiara nelle trattative d’affari, loro alzano le spalle. Noi li troviamo tutti uguali e loro ci confondono. E poi, diciamocelo, quando sciamano per le nostre città tutti in fila dietro a un ombrello stentiamo a riconoscere loro quel genio che, per forza, deve far da corollario alla seconda economia più avanzata del pianeta.
Di chi stiamo parlando? Ovviamente dei giapponesi, i figli della prima delle tigri asiatiche, quelli che ci siamo un po’ dimenticati, tutti presi come siamo a sbirciare dentro la Grande muraglia. Eppure restano un partner commerciale di prim’ordine e una componente sempre più fondamentale della nostra società globale e sushi-dipendente. Questo gap culturale è ora di colmarlo, di capire finalmente perché persone che preferirebbero non darti la mano, per educata riservatezza, accettino di farsi stipare come sardine nella metropolitana di Tokyo, continuando a sorridere sotto la furiosa spinta di addetti in guanti bianchi.
Per mappare i percorsi atipici, ma dotati di una logica ferrea, su cui si muove la materia grigia made in Japan può essere d’aiuto La mente giapponese (Meltemi, pagg. 258, euro 20, a cura di J. Davis e Osamu Ikeno) un saggio pensato proprio per instradare noi occidentali nella selva di simboli in cui, con naturalezza, sguazzano i sudditi del Sol Levante. Leggendolo scoprirete che quell’ambiguità sorridente che vi ha mandato in bestia è l’aimai una condizione innaturale, quindi giusta ed educata, che ogni giapponese coltiva rigorosamente, anche quando pensa di fare il contrario.
In una cultura che fa dell’armonia del gruppo il massimo valore non c’è bisogno di risposte nette, chi sa capisce dal contesto. Così nessuno dice mai: «No». È offensivo. Si dice «forse», si usano allocuzioni ambigue, il cui senso dipende da come vengono dette. Soprattutto dipendono dal chinmoku, dai silenzi, dalle pause che le accompagnano. Il non dire, il tempo che si prende per rispondere, sotto il monte Fuji è di per se stesso comunicazione. Ma allora tra di loro si capiscono sempre? Molto spesso no e questo crea bei guai politico-aziendali. Infatti i comunicatori abili in Giappone sono quelli che hanno haragei: la capacità di leggere il pensiero altrui, di comunicare o dissimulare il proprio.
E poi loro corrono sempre. Perché? Corrono perché una persona come si deve è dotata di ganbari. La parola è intraducibile, ma facciamo finta che voglia dire perseveranza, tener duro. È un retaggio del bushido (la via del samurai) che spinge tutti a non fermarsi, a fare del proprio meglio in ogni situazione, perché ciò che conta non è tanto il risultato ma l’impegno che si mette per ottenerlo. E per rendersene conto basta ripensare a quanto sopportavano per divertirsi in trasmissioni come quella che da noi era intitolata Mai dire Banzai. Così quando ci si saluta ci si dice ganbatte, «lavora sodo», esattamente come allo stadio si urla ganbatte ai giocatori, o lo si dice ai propri figli prima che vadano a scuola. Qualcuno lo scrive anche alla fine delle lettere. Tant’è che in Giappone la pensione, il niente da fare porta spesso al suicidio, alla depressione. Del resto questo è l’unico Paese che abbia qualcosa come il karoshi, la morte da superlavoro.
Anche armati di tutte queste conoscenze, però, quello che un tempo fu il Paese più isolato del mondo, e adesso è uno dei pilastri della globalizzazione, vi resterà per molti versi oscuro. Ci sono tutti quei fenomeni che lasciano in dubbio anche i giapponesi, mutamenti culturali causati dall’incontro della loro civiltà con la nostra. Una volta in Giappone le signorine per bene erano ryosaikenbo (buone mogli e madri sagge), poi è arrivata la festa di San Valentino - noto dio scintoista - con i suoi giri choko (cioccolatini del dovere) che si regalano ai conoscenti maschi con cui avere buoni rapporti e gli honmei choko che invece vanno all’amato. Dopo ancora sono arrivate le Harajuku Girls, che si rifiutano di crescere e si vestono come i personaggi dei cartoni animati, violando qualsiasi basilare regola della vecchia società. Meglio però queste ragazzine o gli otaku, adolescenti ossessionati dai videogiochi, del sempre più diffuso fenomeno degli hikikomori. Giovani che si chiudono nella loro stanza e non escono più: hanno paura degli esami, dell’università del lavoro che non si trova...
Un giapponese potrebbe dirvi che è colpa della cultura occidentale che ha cambiato i valori.

Potreste rispondergli che è un fenomeno loro e che da noi anzi sta arrivando attraverso i video, le canzoni e qualche scrittore di grido con gli occhi a mandorla, che sono i nostri giovani a copiarlo... Ma in fondo ci risiamo siamo di nuovo: lost in traslation.

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