«L’articolo 18 va cambiato»

La modifica dell’articolo 18 oggi allo studio costituisce un salto culturale ma in Italia il mercato del lavoro «non ha mai funzionato bene»: a dirlo è Arturo Maresca, giuslavorista e docente di diritto del Lavoro alla Sapienza di Roma, rimarcando che il nostro Paese soffre «di una carenza dei servizi per l’impiego» anche se la situazione sta migliorando grazie alle agenzie per il lavoro «che indubbiamente sono molto più capaci di gestore il problema».
Perchè è così urgente intervenire subito sull’articolo 18?
«La globalizzazione ha reso necessaria una maggiore flessibilità della produzione. Malgrado la recessione in atto le imprese italiane non hanno liberato manodopera come sarebbe stato logico supporre, ma questo è avvenuto perché il costo della crisi è stato scaricato sui lavoratori a progetto e sulle partite Iva».
Quali sono i punti cardine per impostare una riforma efficace e giusta?
«I governi che si sono succeduti fino ad oggi si sono limitati a intervenire sulla flessibilità in entrata, senza toccare la flessibilità in uscita né quella relativa alla gestione del rapporto di lavoro: salari, mansioni e orari. In questo modo il legislatore ha favorito il proliferare delle forme di acquisizione dei contratti di lavoro, con il risultato di penalizzare i giovani. Ora occorre ridistribuire la flessibilità sia sulla gestione del rapporto sia in uscita. Anche una volta terminata la crisi, se assumere significherà stringere un vincolo indissolubile con il dipendente, le aziende continueranno a cercare strade alternative. Dentro questo problema complessivo, c’è poi quello specifico di intervenire sull’articolo 18».
Quindi gli italiani devono rinunciare all’obiettivo del posto fisso inseguito dalle generazioni precedenti?
«L’articolo18 e l’idea del posto fisso sono due aspetti differenti. Dobbiamo invece distinguere tra il posto fisso e la continuità dell’occupazione: il legislatore dovrebbe intervenire sull’impianto normativo per garantire quest’ultimo aspetto. Intendo dire che se il singolo lavoratore viene allontanato da un’impresa deve essere aiutato a ricollocarsi in un’altra realtà. Ne consegue la centralità delle politiche del reimpiego e che non deve essere modificato il solo articolo 18 ma l’intero impianto: oggi le aziende sono costrette a fare i conti con una incertezza assoluta per quanto riguarda il costo dei licenziamenti e delle cause conseguenti. Se la normativa cambiasse, il lavoratore sarebbe garantito pur sapendo di non poter rimanere a occupare un posto di lavoro che non c’è più».
In Europa è la Danimarca il Paese che ha meglio applicato il principio delle politiche del reimpiego e della cosiddetta «flexicurity». I costi connessi a tale sistema sono però elevati e, secondo alcuni, non sostenibili dalle casse pubbliche italiane…
«Le tutele su cui si basa il sistema danese sono senza dubbio impegnative dal punto di vista del bilancio pubblico, ma il principio dovrebbe essere quello di ripensare l’impianto complessivo oggi esistente per ridistribuirne le tutele e non per aggiungerne altre: al posto di dare al lavoratore una prospettiva di stabilità permanente, si prevede un indennizzo economico e si attiva un efficace servizio outplacement».
Che cosa direbbe ai sindacati per convincerli ad accettare questo salto culturale?
«I sindacati sanno benissimo che cosa devono fare. La disponibilità di Bonanni a cercare una soluzione per gestire i costi in uscita è sicuramente un buon punto di partenza per affrontare la situazione. Finora abbiamo purtroppo preferito nascondere questi problemi».
Come giudica la proposta di flexicurity elaborata in Senato dal giuslavorista Pietro Ichino?
«È un’ottima idea che deve però essere attentamente valutata dal punto di vista dei costi. Se, anche solo in alcune aree del Paese come il Mezzogiorno, il processo di ricollocamento si rivelasse più lungo del previsto, l’impatto in termini di spesa sarebbe rilevante».
Il contratto dei bancari ha visto i sindacati del credito ottenere un fondo per l’occupazione giovanile auto-finanziato dalle banche, anche grazie il contributo del top management. Un accordo di questa natura è esportabile in altri settori?
«È un modello interessante, perché è basato sullo scambio tra la disponibilità sindacale a contenere il costo dei lavoratori in servizio e l’impegno delle aziende a finanziare nuove assunzioni. Finalmente è stato invertita la tendenza di accordi che andavano a discapito dei giovani, ed è giusto che sia così perché chi è di mezza età ha già ogni tipo di tutela. La domanda è tuttavia verificare quale altre imprese in Italia potrebbero sopportare il costo di un accordo di questo spirito; credo che le pmi molto difficilmente riuscirebbero a farlo».
Allora come tradurre questa filosofia di solidarietà generazionale?
«Se ci fosse la revisione articolo 18, le imprese potrebbe utilizzare di più il contratto a tempo indeterminato perché finalmente non sarebbero bloccate dalla preoccupazione che si tratta di un vincolo indissolubile; di conseguenza ci sarebbe molto meno ricorso alle forme alternative come partite Iva e cocopro. La flessibilità in uscita dovrebbe spianare la strada a nuove assunzioni».
Alcuni temono che senza l’articolo 18 le aziende taglierebbero il personale in maniera marcata, aumentando l’instabilità sociale?
«Non è vero che senza articolo 18 le imprese licenzierebbero in modo indiscriminato, per confutare questa tesi è sufficiente vedere la storia dei lavoratori delle piccole aziende che non sono tutelati dall’articolo 18. Oggi, invece, le imprese tendono ad acquisire lavoro con contratti che non garantiscono gli addetti».


Come ritiene dovrebbe essere parametrata, in termini di mensilità, una giusta bonuscita per il lavoratore espulso dall’impresa?
«Occorre considerare tre aspetti: il preavviso di licenziamento, l’indennità di disoccupazione e l’indennizzo, per il quale oggi il Collegato lavoro assegna fino a un massimo di 12 mensilità».

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