«Si tratta di un rebus. È un indovinello pensato apposta per gli investigatori, quasi una sciarada troppo difficile da risolvere rapidamente». È questo il commento di Dario Argento sul giallo di Cocquio Trevisago. E il regista romano, che negli Stati Uniti fa parte del ristretto club dei «masters of horror», quei «maestri dell’orrore» pronti a trasporre incubi e tormenti sul grande schermo, di orrori se ne intende. Quanto è accaduto nella provincia di Varese reca le stimmate d’un pittogramma macabro. Una donna di ottantadue anni sgozzata con precisione chirurgica, le sue due mani che scompaiono, troncate di netto con inaudita barbarie; quattro sigarette di marca diversa, fumate sul luogo del delitto e un’orma numero trentotto formano il macabro conteggio intorno al delitto numero uno, da investigare quest’autunno. Chi meglio dell’inquieto Dario Argento, che frequenta la Biblioteca Angelica per sedare i suoi diavoli in corpo, studiando antichi testi esoterici dai quali trarre visioni fantasmatiche buone per alimentare le sue paure; chi, più di lui, che ha finito di girare «Giallo», con Emanuelle Seigner, la signora Polanski sempre sul filo del rasoio, può illuminare questa vicenda, che promana diabolica malvagità? Dopo aver visto una partita di pallone, in una tranquilla domenica di pioggia, il regista esplora «il caso delle mani mozze».
Dario Argento, da esperto dell’orrore, quale idea s’è fatta del giallo di Cocquio Trevisago?
«Ho tante idee, in proposito. Si tratta di vari elementi. Innanzitutto, sappiamo che l’anziana signora uccisa aveva l’abitudine di portare molti anelli alle dita delle mani. E avrà sicuramente aperto la porta a qualcuno che conosceva bene. I vicini, del resto, l’hanno descritta come una persona riservata, che non avrebbe aperto la porta a chi non conosceva bene».
E allora?
«E allora questa persona, l’assassino, qualcuno che di solito girava intorno all’anziana, dev’essere una donna, innanzitutto. Perché per una donna è più facile farsi aprire la porta, od ottenere la fiducia di un’anziana. Penso a una donna, a una donna molto crudele, anche perché sfilare gli anelli dalle dita di un’anziana non è facile: ci vuole una certa forza. Qui, invece, l’omicida ha pensato bene di portare con sé qualche attrezzo, per tagliare le mani ed eseguire il lavoro del recupero degli anelli a casa, in un secondo momento, con calma».
A quali attrezzi pensa?
«Una sega. O un bisturi. O un piccolo machete. Comunque, dietro le mani mozze intravedo un elemento esoterico».
Quale esoterismo, dietro le mani mozze?
«Le mani danno e tolgono. Le mani toccano. Le mani vengono punite. Rappresentano comunque un simbolo di attività e di potenza. E in tutte le culture svolgono un ruolo comunicativo d’importanza primaria. Mi pare che Freud in molte sue opere parli della simbologia delle mani».
Metterebbe in un suo film questi elementi?
«Sì, certo».
E che cosa ipotizza, a proposito delle quattro diverse marche di sigarette trovate sul luogo del delitto?
«Questo, a mio parere, sembra l’elemento più inquietante dell’intera vicenda. Potremmo pensare a quattro persone diverse, forse? Difficile: non esiste che vadano in quattro a bussare alla porta d’una vecchia signora. Credo sia un rebus voluto, un indovinello, o una sciarada per gli investigatori, troppo difficile da risolvere».
Il suo ultimo film, «Giallo», è ormai pronto. Quando lo vedremo?
«Di fatto, è un film americano e gli americani sono un po’ complicati: va a sapere quando distribuiranno la pellicola... Lì descrivo un uomo che ha una doppia personalità».
Tra i protagonisti di «Giallo» figura anche Emanuelle Seigner, ovvero la signora Polanski, che, a proposito di delitti, ora ha il marito in galera...
«E pensare che Roman Polanski è venuto a trovarmi spesso sul set. Girava tutta l'Europa, io stesso l’ho incontrato in giro, al Festival di Stoccolma e il fatto che l’abbiano beccato a Zurigo ha sorpreso veramente tutti».
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