L’esempio Danimarca

La sfida con cui si sta misurando il governo Monti non potrebbe essere più ardua: intervenire sul mercato del lavoro italiano per renderlo efficiente e quindi ridurre i problemi che oggi frenano lo sviluppo delle imprese e quindi alimentano la disoccupazione. Problema, quest’ultimo, molto vivo soprattutto tra i giovani e in alcune aree come il Mezzogiorno. Al centro del dibattito c’è la possibilità di prendere spunto da quanto la Danimarca applica con successo da anni, con un modello che affianca alla libertà delle imprese di licenziare, una resistente rete di protezione sociale che si occupa di riqualificare gli espulsi così da favorirne il reinserimento. In breve «flexicurity», appunto la crasi tra la «flessibilità» indispensabile al sistema produttivo per crescere e il senso di «sicurezza» economica di cui hanno invece bisogno le famiglie per guardare e investire a medio-lungo termine, per esempio per l’acquisto della casa.
Un connubio difficile da disegnare, anche per gli elevati costi che comporta per lo Stato, ma che ha permesso alla Danimarca di avere un tasso di disoccupazione tra i più ridotti d’Europa e di resistere meglio di altri Paesi alla crisi economica internazionale in corso. Non solo, alcuni studi concordano nell’ipotizzare che un’iniezione minima di «flessicurezza» aumenterebbe tra il 2 e il 3% l’occupazione tra giovani, donne e over 50 nel nostro Paese.


Uno dei primi a formulare una proposta per riformare l’intero impianto del mercato del lavoro è stato il senatore Pietro Ichino, ma tra giuslavoristi ed economisti i pareri sono discordanti. E molti sindacati non vogliono rinunciare ad alcune conquiste ritenute «storiche» come l’articolo 18. Di certo il tempo a disposizione per intervenire è agli sgoccioli.

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