L’idea dell’impero da Roma a Washington

Chiusa l’epoca colonialista, oggi sono gli Stati Uniti ad assumere il compito di guida del mondo

L’idea dell’impero da Roma a Washington

Forma politica che associa un dominio universale al mantenimento di realtà regionali ed etniche, ad esso subordinate, l’impero costituisce una costante della storia politica occidentale, come ci dimostra l’interessante volume di Anthony Padgen Signori del mondo. Ideologie dell’impero in Spagna, Gran Bretagna, Francia, 1500-1800 (il Mulino, pagg. 362, euro 32). Si tratta di uno studio comparativo su tre forme imperiali classiche, che si differenziano nella loro origine e nella loro evoluzione dallo Stato nazionale per motivi strutturali e per alcuni caratteri specifici. La vocazione universale; la pretesa di una infinita durata temporale; la legittimizzazione che non proviene da un contratto politico con i propri soggetti ma da una giustificazione carismatica, religiosa, etica, ideologica; la spazialità internazionalmente complessa diversa da quella territorialmente precisa e ben definita dello Stato: sono questi i tratti distintivi delle diverse forme imperiali, che si sono succedute nei secoli, a partire da un unico esempio.
L’impero di Roma fu infatti l’archetipo di ogni impero successivo, non solo e non tanto per l’estensione temporale e il vigore dell’organizzazione militare e amministrativa, quanto soprattutto per le insuperate capacità di assimilazione e di integrazione dei popoli soggetti, che toccava il suo culmine con l’editto di Caracalla del 212 d.C., nel quale si riconosceva il titolo e i privilegi di cittadino romano a tutti gli uomini liberi che vivevano all’interno dei confini imperiali. L’impero, in questo modo, costituiva il superamento degli antichi vincoli di appartenenza delle città-Stato del mondo antico e produceva un ampliamento universale della cittadinanza, che avrebbe costituito nel futuro un forte e durevole modello di riferimento.
Se infatti, come ci ricorda Padgen, la dinamica di universalizzazione imperiale avrebbe ricevuto un ulteriore impulso dalla sua cristianizzazione che, tra XVI e XVII secolo, avrebbe fornito legittimità all’impero spagnolo in quanto strumento dell’evangelizzazione della Chiesa di Roma, per la sua espansione coloniale dalle Americhe all’Asia, l’impero inglese e quello francese, soprattutto a partire dal Settecento, giustificavano il loro allargamento planetario con la necessità di estendere i vantaggi della civiltà occidentale al resto del mondo. Da questo proposito, si sviluppavano anche progetti di modificazione del tradizionale modello imperiale, che avrebbero dovuto sostituire alla durezza delle leggi della conquista militare un vincolo federativo liberamente sottoscritto da tutti quei popoli un tempo costretti a riconoscersi come parte dell’impero solo dalla violenza delle armi. In questo punto, precisamente, la tarda ideologia imperiale si distingueva nettamente da quella dell’imperialismo otto-novecentesco dove i possedimenti coloniali, invece di essere giuridicamente assimilati, venivano discriminati culturalmente e sottoposti ad uno spietato sfruttamento economico.
Travolta dalla catastrofe del primo conflitto mondiale, che decretò la fine degli imperi europei della Russia e dell’Austria-Ungheria e poi dall’impetuoso processo di decolonizzazione del secondo dopoguerra che mise fine ai domini d’oltremare francesi, belgi, olandesi e che ridimensionò spazialmente e politicamente la costellazione dei dominions inglesi, la forma politica imperiale sembrava, fino a poco tempo fa, scomparsa dal lessico politico. A partire da questi ultimi anni terribili, l’impero è sembrato riapparire, invece, con prepotenza sullo scenario della storia nella nuova incarnazione della superpotenza statunitense, che costituisce ormai il solo attore politico tendenzialmente in grado di garantire un nuovo ordine universale.
In termini simili a quanto avvenne per Roma, anche per gli Stati Uniti il patriottismo dei cittadini, la solidità delle istituzioni politiche, la superiorità tecnica, organizzativa, militare, la ricerca di un rapporto non solo gerarchico-unilaterale con le altre potenze legate ad essi da vincoli di partnership, assieme alla forza di penetrazione del binomio «democrazia e libero mercato» con il quale fu sconfitto l’«impero del male» sovietico, possono forse essere visti come la base di una nuova governance mondiale, nel momento in cui il venir meno della capacità dei singoli Stati di farsi garanti della sicurezza internazionale si manifesta con abbacinante evidenza attraverso la progressiva dissoluzione del valore assoluto di quel principio di sovranità entrato clamorosamente in crisi nelle nuove guerre balcaniche degli anni ’90 e nel conflitto afghano.
Alla costruzione e al mantenimento di questo ordine mondiale, tuttavia, si oppongono fortemente gli effetti perversi di una globalizzazione anarchica e centrifuga che - dalla city di New York alla periferia di Parigi - ha introdotto, fin nel cuore del «nuovo impero», moltitudini di «meticci» sempre più refrattari ad ogni tentativo di disciplinamento, assimilazione, integrazione. La storia del passato in nessun modo può trasformarsi certamente in una profezia relativa al futuro.

Eppure, è difficile non ricordare, oggi, la tesi di un grande storico dell’antichità, come Michael Rostovzev, che sosteneva che la caduta della civiltà romana era stata provocata dalla spinta congiunta dei «barbari esterni» che si ammassavano ai suoi confini e dei «barbari interni» che erano restati esclusi dall’estensione formale e sostanziale della cittadinanza, e che non partecipavano, se non in misura irrisoria e marginale, ai vantaggi della «splendida civilità imperiale».

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