L’identità ritrovata

I nostri sono tornati. E dunque si può ancora far festa. Anzi si deve far festa: senza riserve, reticenze, pudori. Ci si può tingere la faccia coi tre colori, come italici indiani, si possono sventolare bandiere, sorridere a passanti che sorprendentemente ti sorridono, improvvisare spericolati caroselli gioiosi, e non aggressivi girotondi politici. Per milioni di ragazzi che temevano di non riconoscersi più in nulla, o quasi, che coprivano la solitudine, e lo smarrimento, con appartenenze provvisorie (un rapper dal successo passeggero, una maglietta firmata), i giocatori azzurri sono, finalmente «i nostri». Qualcosa con cui identificarsi, da adottare senza riserve, con entusiasmo. La voglia era nell'aria, si percepiva nelle ore prima delle partite, nelle città surriscaldate, desertificate dal coprifuoco dei 33°, ma già brulicanti di bandiere nascoste dappertutto, pronte per essere issate e sventolate. Non senza timore, certo: i ragazzi in cerca di eroi erano anche pronti a metterle via e riportarsele a casa, quelle bandiere. C'era un gran voglia dei nostri, ma non era sicurissimo che si materializzassero davvero, di fronte agli scuri e misteriosi giocatori del Ghana, o ai potenti americani. E invece gli azzurri non hanno mancato all'appuntamento, offrendo un gioco sempre più generoso, brillante, deciso. Quasi non ci si credeva. Erano davvero i nostri. Si poteva far festa, essere davvero felici, abbracciare la gente per strada, ballare. Per la generazione che li aveva visti partire per la Germania sommersi da paginate di giornali dai titoli pesanti, accompagnati da interviste televisive crudamente accusatorie, a cui rispondevano imbarazzati, a mezza bocca, rischiando per giunta reprimende da Guido Rossi, come è capitato a Cannavaro, si è riaperta la speranza. Non solo quella calcistica, ma quella della vita, perché la speranza è contagiosa, una accende l'altra. Forse i nostri, come categoria dell'esistente, c'erano ancora. Forse non era tutto uno schifo, un falso, una truffa. Forse c'era ancora la bravura, la bellezza, il bel gioco, il coraggio. Una scoperta non dappoco, per nessuno. Ma per un giovane, un ragazzo, un giovane uomo, assolutamente vitale. Come una ventata d'aria fresca che rompa l'afa, un po' puzzolente, delle città. Perché per chi ha tutta una vita davanti a sé poter sperare è indispensabile. Ma non puoi sperare da solo. Per sperare devi appartenere a qualcosa di grande, di bello, che ti porta con sé, di cui fai parte. Hai bisogno che esistano i nostri. Perché se loro sono i nostri, vuol dire che tu sei dei loro. Vuol dire, insomma, che appartieni a qualcosa, che non sei solo. Solo allora, davvero, puoi fare festa.
Gli azzurri hanno fatto un miracolo che un esercito di psicoterapeuti non avrebbe mai potuto realizzare. Hanno consentito a decine di migliaia di ragazzi, che si credevano soli, e spesso piuttosto sfigati, di sentire di appartenere a qualcosa, cui nel frattempo un sacco di gente desiderava in qualche modo appartenere: gli austriaci che sventolavano la bandiera italiana, gli ispanici che tifavano Italia perché tutti, in qualche modo, latinos, e tutti gli altri che rendevano onore al bel gioco, alla fantasia, alla resistenza, alla determinazione. Alla capacità di vittoria. Tutte cose che anni di scemenze politically correct hanno finito con l'equiparare a formule retoriche, a vuotaggini retró, formule declamatorie. Mentre di questi sentimenti, modi di essere, capacità, è fatta nientemeno che la vita umana, e la possibilità di viverla felicemente. Come sanno bene studi un po' più accurati, come l'antropologia culturale, che conoscono perfettamente l'importanza del sentimento di identità, e di appartenenza, nella vita di una persona. Ed hanno monitorato accuratamente, ad esempio, il ruolo del calcio nella ricostituzione delle antiche nazioni scozzese, e gallese, che l'orgogliosa Gran Bretagna ha finito pochi anni fa per tornare a riconoscere, legittimando l'importanza delle appartenenze nazionali nell'era della globalizzazione. Nella quale la produzione di idee, costumi, abitudini nuove è così massiccia e continua, da rendere indispensabili gli ancoraggi alle appartenenze più antiche, come, appunto, le nazioni. Per evitare che il giovane globale si senta una scatola vuota, da riempire subito con una sostanza intossicante, di quelle prontamente fornite dai nostri migliori ministri antiidentitari, ed antinazionali.


Per fortuna, come nei film davvero giusti, o nei sogni delle persone che stanno bene, i nostri c'erano davvero, e si sono presentati, puntuali, e generosi. Ed ora si può far festa, e appartenere, e sventolare le bandiere, e sperare. Come gli uomini fanno, da sempre, quando riescono ad essere felici.

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