NellAssemblea Costituente sedeva sui banchi comunisti. Ma il sessantunenne non era un vero comunista, come dimostrò intervenendo nei lavori con molta indipendenza. Così poco lo era, che primi a offrirgli il seggio furono i democristiani. «Generale, sarebbe un onore avere tra le nostre file un illustre italiano avversato dal fascismo», gli disse Giulio Rodinò a nome della Dc. Il cattolico Rodinò pensava di andare sul sicuro. Il generale aveva eccellenti rapporti col Vaticano e, nella sua veste di autorevole scienziato, era membro dellAccademia pontificia. Il militare invece, prese tempo. «Ci penso e vi darò una risposta», disse.
Lindomani bussarono alla sua porta i comunisti. «Il suo contributo alla Costituzione del Paese, non può mancare», premise lemissario di Palmiro Togliatti. E aggiunse: «Non le chiediamo di aderire alle nostre idee. Lei conserverà le sue e la piena libertà di esprimerle». Labile proposta piacque al Nostro più di quella dc e laccettò in linea di massima. A stretto giro, gli arrivò una lettera personale di Togliatti che diceva: «Siamo orgogliosi di avere nelle liste il nome di un uomo che ha illustrato il Paese col suo ingegno, col suo lavoro e col suo coraggio». Il generale sciolse ogni riserva e si candidò col Pci.
Fin da ragazzo, il Nostro simpatizzava per il socialismo. Indossando la divisa non aveva naturalmente mai fatto politica, ma lo indignavano gli scarti tra grandi ricchezze e la miseria del Mezzogiorno, dove era nato. Per altri versi, era invece conservatore. Di sé diceva: «In certe cose sono più a destra dei liberali, in altre più a sinistra dei comunisti». A fare pendere la bilancia verso sinistra, fu lesperienza diretta del regime sovietico. Dopo la rottura col fascismo, il Nostro emigrò in Urss accogliendo linvito che gli era stato fatto dagli scienziati russi di proseguire nei loro laboratori le sue ricerche. Visse a Mosca negli anni delle purghe di Stalin ma, immerso nei suoi studi, sembrò non accorgersi degli orrori. Nel 1946, un paio di mesi prima del suo ingresso in politica, rievocò il soggiorno con un libro, Quello che ho visto nella Russia sovietica. Una testimonianza benevola del regime staliniano senza però eccessi partigiani, estranei alla sua indole fredda e razionale.
Quando dunque si sparse la voce della sua candidatura, il Vaticano si allarmò. Sedere contemporaneamente sulle scranne del Pci e dellAccademia pontificia era un non senso evidente. Nellincontro subito organizzato col segretario di Stato, Giovanni Battista Montini, bastarono poche parole. Il Nostro si dimise da accademico e si congedò con amicizia. Alla Costituente, i comunisti furono di parola e lo lasciarono fare di testa sua. In nome dellunità del Paese, si oppose allordinamento regionale che piaceva sia al Pci sia alla Dc. Fu contrario allesilio delle donne di Casa Savoia, che invece il suo gruppo esigeva. Parlò contro il divorzio con la veemenza di un democristiano benpensante. Fece insomma il bastiancontrario, poiché la sua adesione al Pci era più frutto delle circostanze che di convincimenti.
La sua vita aveva camminato su ben altri binari. Fu il temperamento più nordico che abbia mai generato lIrpinia. Scordate Ciriaco De Mita e immaginate un uomo di poche e chiare parole, serio, deciso. Tale era il Nostro. Eccezionale negli studi secondari, autentico cannone nella facoltà di Ingegneria. Ufficiale di carriera dellAviazione, fu per 30 anni docente di Costruzioni aeronautiche nellUniversità di Napoli. Inventò il primo paracadute italiano che surclassò quello francese, spauracchio degli aviatori dellIntesa durante la Grande Guerra, poiché la metà delle volte non si apriva. Creò il primo aereo metallico nazionale, inanellò primati su primati nel perfezionamento di aeromobili, finché, partecipando a imprese aeronautiche internazionali, la sua fama divenne mondiale. E qui, mal gliene incolse.
La gloria del generale suscitò linvidia di Italo Balbo, grande aviatore anche lui, ma prepotente gerarca. Balbo si appollaiò come un gufo aspettando un passo falso del rivale. Loccasione arrivò nel 1928, quando laeromobile del Nostro precipitò e i nove superstiti dovettero attendarsi in una regione desertica e ostile. Lattesa dei soccorsi durò 48 giorni dinferno. Quando finalmente la tenda fu individuata, un piccolo aereo riuscì a atterrare nei pressi. Aveva posto per uno solo dei naufraghi. Fu deciso che a salire sarebbe stato il comandante della spedizione, cioè il Nostro. Era la cosa più logica: nessuno meglio di lui, una volta al sicuro, avrebbe potuto organizzare il salvataggio di tutti. Il che puntualmente avvenne e con successo. Ma Balbo sollevò una canea accusando il generale di vigliaccheria in base al principio che il comandante è lultimo a lasciare la nave che affonda.
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