L’ondivaga interpretazione dell’articolo 68

Carlo Giovanardi*

Storicamente l’articolo 68 della Costituzione è stato lo «scudo» che ha permesso ai deputati, specie quelli dell’opposizione di sinistra, di condurre battaglie politiche (chi non ricorda quelle contro la Procura di Roma accusata di essere «il porto delle nebbie»?) senza essere trascinati in giudizio, civile o penale, per le opinioni espresse. La recente sentenza della Cassazione su uno dei tanti procedimenti riguardanti Vittorio Sgarbi e la Procura di Palermo, sancisce invece che «esula dalla scriminante del diritto di critica, politica o giornalistica, l’accusa di asservimento della funzione giudiziaria a interessi personali, partitici, politici, ideologici, ovvero accuse di strumentalizzazione di quella funzione per il conseguimento di finalità divergenti da quelle che debbono guidare l’operato del pubblico ministero, stanti le attribuzioni e i doveri istituzionali che caratterizzano la posizione ordinamentale di tale organo». Sullo stesso caso, viceversa, la Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera il 31 gennaio 2001, a maggioranza, relatore l’onorevole Filippo Berselli, proponeva all’aula di pronunciarsi per l’insindacabilità dell’opinione espressa dall’onorevole Sgarbi, perché «si inseriscono nel contesto della perdurante polemica politica nel nostro Paese, inerente al modo di procedere della magistratura e in particolare nella forte critica politica manifestata dall’onorevole Sgarbi nei confronti dell’operato di alcuni magistrati». L’aula diede torto al relatore e a maggioranza (135 sì contro 155 no) si pronunciò contro l’insindacabilità (nella tredicesima legislatura la maggioranza era di centrosinistra).
Ma anche quando, nelle ultime due legislature, l’Aula si è espressa a favore dell’insindacabilità delle opinioni espresse, la mutata giurisprudenza della Corte costituzionale ha più volte annullato tali decisioni, consegnando i parlamentari nelle mani dei giudici se le loro opinioni non erano state già espresse in Parlamento o fuori di esso e soltanto se c’è un nesso funzionale forte con le cose dette o scritte precedentemente in Parlamento.
Il combinato disposto della nuova giurisprudenza della Corte costituzionale, che «scopre» il parlamentare proprio nei momenti in cui oggi più frequentemente si svolge la sua funzione (dibattiti televisivi, interviste, convegni, dichiarazioni pubbliche, eccetera) e la sorprendente ultima sentenza della Cassazione, secondo la quale per definizione i magistrati non perseguono mai interessi personali, partitici, politici, ideologici e mai strumentalizzano la loro funzione per finalità divergenti da quelle istituzionali, rischiano di colpire al cuore la libertà dei rappresentanti del popolo che l’articolo 68 della Costituzione ha voluto rafforzare rispetto all’articolo 21 (libertà di parola e di pensiero), stabilendo che non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Così come non mi risulta che i magistrati siano stati mai chiamati a rispondere dei pesanti giudizi espressi verso i parlamentari per i quali, benché incensurati, viene richiesto l’arresto.

Credo pertanto sia doverosa una riflessione di fondo su questi nuovi orientamenti giurisprudenziali che rischiano di paralizzare, per tema di disastrose conseguenze in sede penale e anche in sede di risarcimento danni, una delle più preziose competenze dei rappresentanti del popolo che è proprio quella di denuncia e critica politica per tutelare la libertà e i diritti di tutti i cittadini.
*Presidente giunta per le autorizzazioni

a procedere della Camera

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