L’oppio per Al Qaida

Marx insegnava che la religione è l’oppio del popolo. I suoi nipotini dell’Unione tendono la mano al popolo dell’oppio, e propongono di tenere buoni i terroristi e le milizie al soldo delle mafie internazionali che proteggono le piantagioni afgane - fonte di oltre il novanta per cento dell’eroina mondiale - acquistando oppio in Afghanistan da destinare non alla droga ma alle industrie farmaceutiche. La proposta non è né nuova né realistica: le piantagioni di oppio si trovano nelle zone controllate dai terroristi. Non sono controllate da piccoli coltivatori indipendenti, ma dai talebani e da Al Qaida, con cui non si capisce bene in che modo l’Italia vorrebbe trattare, e che hanno già un cliente che non ama essere scontentato: il cartello delle mafie internazionali.
La proposta sembra piuttosto l’oppio del popolo rosso: la si avanza per addormentare e tenere buona la sinistra radicale dal cui voto dipende la sopravvivenza politica del governo, e cui intanto D’Alema offre le sue lacrime per le tragiche ma inevitabili vittime civili dell’offensiva Nato in corso.
Da Washington ormai si chiede brutalmente se l’Italia in Afghanistan è parte del problema o della soluzione. Non è certamente in discussione la professionalità dei nostri Alpini, che nel 2003 - ma allora c’era il governo Berlusconi - hanno dimostrato le loro capacità tenendo lontani i terroristi da una zona montana considerata proibitiva. Sono in questione gli ordini che ricevono da Roma. Prodi e D’Alema non possono permettersi la madre di tutte le figuracce internazionali, il ritiro dei soldati italiani da una missione come quella in Afghanistan condotta dalla Nato con tutti i timbri e i bolli delle Nazioni Unite, un evidente esempio di quel «multilateralismo» tanto caro all’Unione. Ma per sopravvivere al Senato il governo ha bisogno che in Afghanistan non muoia neppure un soldato. Lo ha scritto perfino il più filo-governativo dei settimanali italiani, L’Espresso: «La volontà di evitare perdite sembra avere preso il sopravvento sulle ricerca dei risultati, mettendo così in crisi il ruolo dei militari».
Parliamoci chiaro: se lo scopo è «evitare perdite», il modo più sicuro di raggiungerlo è tenere i soldati in Italia. Se invece li si mantiene in un'area che è ormai di guerra, bisogna armarli come si conviene. Ora, gli armamenti dei soldati in Afghanistan sono gestiti dal governo Prodi al risparmio, giocando sulla pelle dei militari. Mentre persino Zapatero manda carri armati e artiglieria, Prodi taglia le spese e confida su qualche autoblindo. Non è tanto questione di soldi - la missione italiana costa comunque ottocento milioni di euro - ma di non spaventare Giordano e Diliberto che, sentendo parlare di carri armati, non riuscirebbero più a vendere alla loro base la favola secondo cui i nostri militari partecipano a una distribuzione di viveri e medicine e non, come avviene, a una guerra. Le truppe americane e inglesi possono commettere qualche errore: sono stanche, nervose e sottoposte a turni massacranti. Ma questo, dicono a Washington, avviene anche perché ci sono governi, come quello di Roma, che non fanno la loro parte. Salvo poi piangere lacrime di coccodrillo quando fra i civili ci scappano i morti.

E proporre di trasformare una missione militare in un Paese in guerra in una variopinta carovana che non solo propone improbabili conferenze di pace, ma ora vorrebbe sedersi al tavolo con i talebani e Al Qaida e finanziarli - in concorrenza con la mafia - comprando partite di oppio da loro.

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