L’opportunista senza princìpi che salvò la Patria

L’opportunista  senza princìpi  che salvò la Patria

Ebbe fama di opportunista senza principi con una pericolosa passione per gli spargimenti di sangue. La goccia che fece traboccare il vaso, fu la folle decisione di forzare lo stretto dei Dardanelli per giungere a Costantinopoli via mare.
Da pochi mesi l’Impero Ottomano era entrato in guerra al fianco degli austro-tedeschi. Una cortina di ferro aveva isolato la Russia zarista dagli alleati anglo-franco-italiani. Attraversato lo stretto - così ragionava il Nostro, affascinato dall’idea -, la Royal Navy sarebbe apparsa di colpo davanti a Costantinopoli. Il panico avrebbe provocato una rivoluzione e il ritiro della Turchia dalla guerra. La linea con la Russia sarebbe stata riaperta e i Balcani si sarebbero uniti all’Intesa. Era l’anticamera della vittoria. Piano geniale, ma di un’improbabilità suprema.
I Dardanelli, budello lungo 80 miglia e largo quattro che unisce l’Egeo al Mar di Marmara, era strenuamente difeso dai turchi. A Gallipoli, batterie di potenti cannoni erano in grado di annientare qualsiasi naviglio. I papaveri dell’Ammiragliato erano tutti contrari all’azzardo. Ma il Nostro ordinò egualmente l’attacco. Dopo la puntuale perdita di tre navi, l’ammiraglio de Robeck fermò l’operazione e rifiutò di riprenderla senza coperture. Londra allora decise per un’azione combinata terra-mare e inviò le truppe. Fu egualmente un fallimento. I turchi bombardavano con aerei la terraferma e con gli obici infierivano sulle navi. Il bilancio per l’Union Jack fu tra i peggiori della Grande Guerra: 67mila morti.
Per il Nostro, esponente dei liberal, fu la consacrazione dell’opinione negativa che già lo circondava: bizzarro, dilettantesco, guerrafondaio. Il Morning Post, vicino ai conservatori suoi avversari, scrisse: «Un ufficiale inferiore ha fatto di testa propria contro il parere degli ammiragli. È un pericolo per il Paese». Il leader dei conservatori, Bonar Law, rincarò: «Ha straordinarie capacità mentali, ma una mente instabile». Lloyd George, che pure gli era amico, osservò: «Non ha tenuto in alcun conto i tormenti e le sofferenze che avrebbe causato a migliaia di persone». Il fallimento di Gallipoli pesò sulla carriera del Nostro nei decenni successivi. Ma più che sul curriculum, il quale non mancò di onori e successi, gravò sulla stima nell’uomo. Si accentuò l’apprensione in tutto il Regno Unito per qualsiasi sua iniziativa o asserzione.
Il dilettante era, per parte di padre, di ottima famiglia britannica. Il capostipite della dinastia fu, nel ’700, fraterno amico di Eugenio di Savoia e suo alleato nell’impresa di liberare la Baviera dal giogo francese. La madre, Jennie Jerome, era invece figlia di un discusso newyorkese, uomo d’affari e scommettitore sui cavalli. La trisavola materna di Jenni era addirittura una pellerossa. Una squaw dei Seneca, la più bellicosa delle sei tribù degli Irochesi. Questa curiosa coppia di genitori, presa dalla vita brillante, trascurò sia lui, che era il più giovane, sia i suoi sette fratelli. Il ragazzo si affezionò alla governante, signora Everest, che ne intravide il genio. Manifestò la sua gratitudine facendola rivivere nel personaggio di Bettina in Savrola, il romanzo che pubblicò quando aveva 26 anni nel 1900. Studente svogliato, fu messo in un’accademia militare. Eccelleva nel nuoto, tiro al fucile e scherma. Per il resto, fu somaro in tutto, salvo un certo talento per la chimica perché era connessa con le esplosioni, ossia la guerra. Per la stessa ragione fu un forsennato collezionista di soldatini, muovendo i quali improvvisava strategie. La guerra era per lui motore del mondo. Disse anni dopo: «Distruggete la rivalità di uomini e nazioni e avrete distrutto tutto ciò che produce miglioramento sulla terra».
Uscito dall’accademia fu per qualche anno ufficialetto di carriera. Il padre come il fratello, suo zio, erano morti precocemente. Il Nostro pensò che fosse destino della famiglia. Desiderava perciò lasciare una traccia nella Storia, prima che fosse tardi. Voleva battersi. Ma erano gli anni pacifici della regina Vittoria e solo nella colonie i soldati veterani avevano qualche occasione di menare le mani. Così, si fece mandare volontario nei punti caldi della terra. Nello stesso tempo, fu corrispondente di diversi giornali. Andò a Cuba, dove i nazionalisti combattevano gli spagnoli, in India coi reggimenti inglesi impegnati in qualche scaramuccia, in Sudafrica per la guerra anglo-boera. Ebbe legioni di lettori e fu l’inviato più pagato dell’epoca. Su ogni esperienza scrisse un libro. La fama lo portò in Parlamento. Debuttò come conservatore, passò ai liberali, poi ai radicali e tornò coi Tory venti anni dopo. Alla fine, ne diffidavano tutti anche se gli affidavano importanti incarichi di governo.
Solo a 65 anni, in circostanze eccezionali, tutti guardarono a lui come l’unico di cui ci si potesse fidare.

Svolse egregiamente il compito ma, appena assolto, l’antica sfiducia prese il sopravvento e fu allontanato. L’ingratitudine non scosse di un filo l’alta opinione che aveva di sé. Prima di morire a 91 anni, la espresse dicendo: «Siamo tutti insetti, ma io sono certo di essere una lucciola».
Chi era?

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