Da Auckland ad Auckland. Ventiquattro anni dopo e alla settima coppa del mondo, il rugby riparte da laggiù, dal capolinea del mondo, per scoprire che cosa è veramente cambiato in questo quarto di secolo. Nel 1987 fu proprio la Nuova Zelanda ad ospitare la prima edizione del mondiale, una svolta epocale in uno sport che fino a quella data aveva vissuto di tournée e di tradizioni, di caps, di leggende, di terzi tempi, di colpi duri tra gentiluomini, di tutta quella patina un po retro che circondava il mondo ovale. Poi allimprovviso la rivoluzione, la scoperta che anche il rugby - buon ultimo - poteva organizzarsi per giocare un campionato del mondo (se pensiamo che non esiste ancora quello europeo non cè da meravigliarsi troppo
) ed eleggere la vera regina di questo sport. Da allora, inevitabilmente, la palla ovale ha cambiato velocità: professionismo, diritti tv, giocatori-star, insomma tutto il bello e il brutto dello sport-spettacolo. Un mondo quasi irriconoscibile, rispetto a 24 anni fa: basti guardare come sono cambiate le maglie (tutte sponsorizzate), roba da far rabbrividire i romantici e i nostalgici
Adesso però cerchiamo di capire anche che cosa è rimasto del vecchio rugby che fu, della sostanza di questo sport. E i mondiali in Nuova Zelanda possono proprio aiutarci, soprattutto perché si torna a giocare nella patria più affascinante di questo sport. Si comincia questa mattina (per noi che viviamo agli antipodi) nel mitico Eden Park, un nome una garanzia, nel cuore e tra i colli di Auckland, quarta città del mondo per qualità della vita, paradiso dei rugbisti, come dei velisti, ma non solo. Si riparte con Nuova Zelanda-Tonga nello stadio dove gli All Blacks sollevarono il 20 giugno dell'87 la loro prima e finora unica coppa del mondo. Un dato che da solo serve già a capire il senso di questo mondiale: i mitici Blacks, uno dei marchi più famosi dello sport planetario, la squadra che conoscono anche le mamme e le zie, inchiodati ancora a quell'unica coppa vinta sul prato di casa. Poi più nulla, incredibilmente.
Eppure i tutti neri sono sempre considerati i più forti del mondo, anche se la coppa dedicata a Webb Ellis, il pastore anglicano che nell'Ottocento a Rugby decise che si poteva giocare a pallone con le mani, è passata via via tra le bacheche di australiani, sudafricani e inglesi senza fare ritorno tra quelle dei signori dell'haka. Adesso hanno l'occasione per riscattarsi, spinti da un'intero paese, quattro milioni di abitanti e 40 milioni di pecore, che vive il rugby come una religione, come l'unico modo per far sapere al mondo che esiste questo paradiso terrestre diviso su due isole, una terra che soffre ancora per le ferite del terremoto di pochi mesi fa (e infatti non si giocherà a Christchurch, la città più vittoriana ed elegante della Nuova Zelanda) e che vuole rialzare subito la testa a cominciare dal rugby.
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