Scioperano e urlano la loro rabbia i lampedusani alla notizia che il Governo ha deciso di realizzare accanto al centro di accoglienza quello di identificazione ed espulsione. Temono che Lampedusa diventi unAlcatraz. Ieri è stata una giornata campale sull'isola. Da una parte gli oltre 1.300 clandestini disperati e ammassati nel cpt, dall'altra gli abitanti dell'isola delle Pelage ormai ridotta ad avamposto dell'immigrazione che viene dal nord Africa e non si ferma nemmeno dinanzi al mare in tempesta. Il serata il Governo ha risposto con l'annuncio dell'apertura del contestato centro di identificazione nell'ex base Loran da tempo dismessa.
Di buon'ora l'isola si ferma. Sciopero generale bipartisan contro la ricetta Maroni per affrontare la gestione dei clandestini: i lampedusani vi partecipano in massa e urlano contro il responsabile del Viminale: «Maroni ci ha tradito». A guidare la protesta il sindaco Dino De Rubeis. «Non siamo razzisti - dice -, non abbiamo nulla contro i migranti ma è impensabile un nuovo centro che sarebbe una sorta di lager. I rimpatri diretti da Lampedusa sono impraticabili. È assurdo ritenere che tutti gli extracomunitari che arrivano debbano restare da noi, fino al rimpatrio. Il centro ha una capienza massima che non può essere superata se non a discapito della dignità di chi vi alloggia».
La dignità di cui parla il sindaco di Lampedusa oramai non esiste più. Da mesi il centro, inaugurato meno di un anno fa, scoppia. In estate gli ottocento posti sono stati occupati da un numero doppio di persone. In agosto anche 1.800 clandestini sono rimasti assiepati per settimane. Adesso ce ne sono 1300. Dentro è un caos: brandine schierate lungo i corridoi, materassini bagnati d'acqua, le tende da campeggio usate per gli ultimi arrivati che non riescono ad entrare. Dietro la sottile rete metallica che separa il centro di accoglienza dal sogno di libertà i clandestini sono come belve in gabbia. Molti hanno ancora negli occhi la paura di un viaggio per mare durato settimane e pagato migliaia di euro. «Aiuto, liberateci», gridano tentando di arrampicarsi sulla recinzione.
Ognuno di loro ha una storia da raccontare. La maggior parte è nel Cpa da settimane. «Siamo venuti in Italia pensando che fosse il Paese della libertà - impreca Abdelrazec, 31 anni tunisino -. E invece ci tengono qui dentro ammassati come bestie, il cibo è poco e il futuro è il rimpatrio».
Lamin è senegalese, ha 23 anni e sogna di non morire più di fame. «Sono scappato dalla mia terra perché non avevo da mangiare. Voglio solo un lavoro...».
Sull'isola ieri è arrivata una delegazione del Pd.
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