Milano, case popolari di via Amadeo fatte costruire da Benito Mussolini, fra Città Studi e Ortica, dove Luchino Visconti girò Rocco e i suoi fratelli. Qualcuno bussa alla porta. Fausto Fugazza si alza e va ad aprire. «Oh, Franca, sei tu!». Sono nati e cresciuti qui, porta a porta. Franca, ipovedente, ha 77 anni; Fausto 68. Durante la seconda guerra mondiale, Franca gli dava da mangiare col biberon, «un tiro di latte a lui e due tiri a me», confessa, «perché già eravamo tutti affamati in tempo di pace, figurarsi sotto le bombe».
Da allora, Franca continua a fare quello che ha sempre fatto. Solo che al latte adesso ha aggiunto il caffè. «Ecco qua», deposita sulla tavola una bracciata di pacchetti Moka club da 250 grammi. «Scusami, stavolta sono soltanto 21, invece di 30. Ma, sai, è aumentato parecchio». Venti confezioni le ha pagate, una gliel’hanno regalata. Fanno 34 euro, quasi il 6 per cento della sua pensione, che è di 619 euro al mese.
Fausto ringrazia commosso l’amica. Ma non ci farà il caffellatte per sé. «Con uno di questi», spiega, «in Moldavia paghi il medico che ti ottura un dente». Fugazza incarna la miglior dote degli italiani: la generosità. Da un quarto di secolo guida una stupefacente macchina di aiuti umanitari: poveri che aiutano altri poveri. È il suo modo di rimediare agli infiniti guasti prodotti dal comunismo. Perché questo milanese porta soccorsi soltanto lì, nell’Est europeo. E lo fa in splendida solitudine, senza insegne, senza Onlus, senza carta intestata, senza 5 per mille, senza sito Internet; non ha né sedi né telefoni, neppure l’ombra di una citazione su Google, insomma nulla di ciò che spesso contribuisce a trasformare le ragioni del cuore in burocrazia associativa e talvolta in mestiere.
Ha cominciato quando ancora c’era la cortina di ferro. Russia, Ungheria, Cecoslovacchia, Ucraina, Lituania, Bulgaria, Romania, Jugoslavia, Kosovo e oggi la Moldavia: non c’è Paese dove non si sia infiltrato, mettendo a repentaglio la propria incolumità personale, per portare denaro e, dopo il crollo del regime sovietico, Tir stracolmi di cibo, vestiti, scarpe. Per anni è partito da solo, in treno, in aereo, in auto, col visto turistico. «Il rischio più grosso era alle frontiere, quando mi chiedevano se avessi qualcosa da dichiarare. E io regolarmente rispondevo: nulla. Invece ero imbottito di dollari. Più volte mi hanno sottoposto a ispezione corporale. Mai trovati». Non voleva dirmi dove li nascondesse e per un attimo ho temuto che usasse l’espediente dei trafficanti di droga che si riempiono la pancia con ovuli di cocaina. «Ma no, che cosa va a pensare! Semplicemente li davo in mano agli stessi poliziotti». Cioè? «Consegnavo a loro la giacca, con una copia stropicciata del Corriere della Sera in bella vista nella tasca. Mica stavano lì ad aprire il giornale. L’avessero fatto, sarebbero caduti a terra centinaia di bigliettoni verdi».
La specialità di Fugazza era quella di avvicinare i dissidenti appena tornati dalla Siberia o usciti dalle prigioni nei Paesi del Patto di Varsavia. «Poi con l’avvento di Mikhail Gorbaciov ho perso il mio lavoro», quasi si lamenta, perché quello di manutentore di fotocopiatori e ciclostili l’ha sempre considerato un secondo lavoro. «Cinque-sei volte l’anno lasciavo i miei tre dipendenti e partivo». Non appena ha potuto, li ha lasciati per sempre.
Attualmente Fugazza vive otto mesi l’anno a Chisinau, capitale della Moldavia, la repubblica incastonata fra Romania e Ucraina che si proclamò indipendente al dissolvimento dell’Urss, nel 1991. A dargli una mano c’è solo una segretaria, Diamantina Cojocaru, 37 anni, due figlie. Lei e sua madre, medico, erano senza casa, ne occuparono una e il benefattore ha dato loro i soldi per far causa allo Stato. «Alla fine sono riuscite a ottenere un appartamentino privo di acqua e di elettricità in un casermone popolare. Da allora lavorano per me, passo a entrambe un piccolo stipendio. Sono felici quando torno in Italia: in quei quattro mesi si trasferiscono a vivere a casa mia, che almeno ha il riscaldamento, l’acqua corrente e il televisore».
Come le è venuto in mente di coltivare quest’hobby?
«Lessi un libro sulle deportazioni dei cattolici in Siberia scritto da monsignor Cristoforo Campana, per lungo tempo parroco della cattedrale di Urbania, nelle Marche. Su indicazione di Pio XII, nel 1952 questo prete aveva fondato il Movimento rinascita Oriente cristiano, che assisteva la gente dell’Est perseguitata per motivi religiosi. Gli telefonai e andai a trovarlo. Mi conquistò. Alla sua morte ho continuato da solo».
È un hobby che richiede coraggio.
«Vado con la fiducia in Dio, pensando che sia questo che Lui vuole da me. Finora sono sempre tornato».
Poteva finire in Siberia anche lei.
«La Siberia non era il posto peggiore. I lager della Romania ai tempi della dittatura di Nicolae ed Elena Ceausescu erano molto, ma molto, più duri dei gulag».
L’economista Giancarlo Elia Valori, che era spesso ospite dei Ceausescu, mi ha detto che le loro tombe sono sempre coperte di fiori.
«Questo non lo so, ma è possibile, perché il regime ha lasciato orfani molti criminali. Quello che so, per averlo conosciuto di persona, è che un sacerdote cattolico di rito greco-ortodosso, rinchiuso per 24 anni nel mattatoio di Adjud, veniva costretto a chinarsi per terra, raccogliere con le mani gli escrementi, baciarli come se fossero una particola e poi consacrarli col segno di croce, in una ripugnante parodia della messa. E se si rifiutava di farlo, lo torturavano».
Si stenta persino a crederlo.
«Lo so. Nel 1990 alloggiavo in un albergo di Bucarest, oggi demolito. Nella hall vidi un giovane colonnello dell’esercito che barcollava. Gli chiesi se si sentisse male. “Oh no”, rispose, “è solo che ho un problema ai piedi”. E mi raccontò che la Securitate, la polizia segreta di Ceausescu, gli aveva strappato con le tenaglie tutte le 20 unghie dei piedi e delle mani».
Per quale motivo?
«Il suo incarico, durante la dittatura, era di girare in incognito nei Paesi occidentali per rintracciare i fuoriusciti rumeni rifugiati all’estero. Una volta individuati, faceva intervenire i sicari da Bucarest, che venivano ad ammazzarli. Mi confessò d’aver fatto uccidere molti suoi connazionali, in Francia, in Germania, anche in Italia, a Milano e a Roma. Il giorno che non se la sentì più di eseguire il suo sporco lavoro, fu ridotto in quello stato».
Come mai è andato proprio in Moldavia?
«Me lo suggerì un panettiere di Bucarest. Dieci anni fa mi disse: “Vada a Chisinau, là muoiono di fame”. Arrivato alla frontiera, mi accorsi che i primi a morire di fame erano i poliziotti. Nella capitale mi imbattei nella tragedia di una giovane donna, madre di due bimbi piccoli, che era stata portata all’ospedale per un’appendicite. “Ha i soldi per pagare l’operazione?”, le aveva chiesto il medico. Alla risposta negativa, le disse: “Torni a casa. Vedrà che starà presto bene”. Infatti ora sta benissimo: è sotto terra. In Moldavia per essere curati bisogna pagare una polizza di 1.000 lei l’anno pro capite, pari a 67 euro, che in caso d’emergenza copre tre giorni di ricovero ospedaliero e un piccolo intervento, quindi niente chirurgia toracica, cardiopolmonare o vascolare. Ma 1.000 lei equivalgono a uno stipendio mensile e mezzo. Finora sono riuscito a far operare una trentina di bisognosi. Le operazioni al cuore costano 3.500 euro l’una perciò devo crudelmente limitarle ai bambini e ai giovani, che hanno più aspettativa di vita. Agli anziani posso garantire solo gli interventi di cataratta, che si fanno con 30 euro».
E dove trova i soldi?
«Me li dà la gente semplice. Qui a Milano mi aiutano le parrocchie della Barona, dei Santi Nereo e Achilleo e del Suffragio. Posso contare su gruppi di volontariato a Brescia, Vicenza, Ortisei, Bolzano. Non ho mai cercato il sostegno delle banche. Chiedono troppe carte e c’impiegano un sacco di tempo a erogarti un sussidio, mentre io quello che ho da fare oggi avrei già dovuto farlo ieri».
Quanto denaro distribuisce?
«Nel 2007 circa 50.000 euro, che laggiù corrispondono a una fortuna. Spesso io e Diamantina andiamo a visitare le località più povere, senza farci riconoscere. Ci presentiamo soltanto al sindaco e gli chiediamo di portarci nella case dove vivono i più miserabili e gli ammalati. E a quel punto aiutiamo direttamente la famiglia. La povertà non ci sfugge. Niente intermediari. In un decennio avrò soccorso circa 15.000 persone con questo sistema. A volte l’aiuto più grande è dar loro i soldi per procurarsi i documenti d’identità. Molti non percepiscono gli assegni familiari perché non hanno neppure i quattrini per farseli rilasciare».
Come vivono i moldavi?
«In provincia mangiano solo quello che coltivano: verze, rapanelli, carote. Le patate sono quasi tutte attaccate dal marciume secco. Lo zama, il minestrone, è diventato il piatto nazionale obbligatorio. Polli e conigli sono un lusso. A Chisinau si può far la spesa nei Green hills market, aperti da un italiano di Reggio Emilia, dove però fatichi a trovare persino l’insalata».
Che cosa c’era di sbagliato nel comunismo?
«Il voler programmare tutto, annientando qualsiasi forma di iniziativa privata. Dalla culla alla bara, provvedeva lo Stato. Vietato discutere. Io credo che il comunismo abbia attecchito all’Est proprio perché ha trovato popolazioni dolci, gentili, sottomesse. Schiacciarle col pugno di ferro è stato un gioco da ragazzi».
Oggi va meglio?
«Ho fatto parte per due anni di una commissione governativa sugli aiuti umanitari presieduta dal vicepremier Valerian Cristea. Si riuniva ogni giovedì pomeriggio. Un bel giorno cominciamo a indagare su 20 milioni di dollari arrivati dagli Stati Uniti e su tonnellate di riso spedite dalla Cina e dal Giappone. Tutto sparito. Dove sono finiti? Convochiamo il sindaco di una municipalità. E costui, come se nulla fosse, risponde: “I dollari e il riso ce li siamo tenuti io e i nove consiglieri”. È ancora al suo posto. Con 20 milioni di dollari si poteva sfamare tutta la Moldavia. Mi sono dimesso».
Stanno da cani, però il Partito dei comunisti della Repubblica di Moldavia è ancora al governo col 46% dei voti.
«Un bel mistero. Se ne meravigliano tutti. Lei gira per la Moldavia e non trova nessuno che l’abbia votato».
Che se ne farà di un ministro dello Sviluppo informatico una nazione che ha 100 computer ogni 1.000 abitanti, quando persino la Mongolia ne ha 164 e il Sudan 102?
«Me lo chiedo anch’io, tanto più che l’accesso a Internet avviene solo attraverso provider di Stato, quindi di fatto c’è la censura».
Quant’è diffusa la corruzione?
«Domanda troppo ovvia. Non esiste una corruzione limitata. Per un allacciamento dell’acqua o del gas devi pagare l’ingegnere e il sottoingegnere, l’idraulico e il sottoidraulico, il manovale e il sottomanovale. Persino le bollette ufficiali sono moltiplicate per quattro. Io sfrondo, verso quello che ritengo giusto e nessuno fa una piega».
Le moldave che arrivano in Italia o fanno le badanti o fanno le prostitute. Possibile che non trovino altri impieghi?
«C’è molta prostituzione anche là. Dipende dalla bassissima scolarità. Anche se, per ottenere una laurea, basta consegnare una bustarella ai professori e organizzare un pranzo per la commissione. Il giorno dell’esame i docenti controllano sul bloc-notes chi ha pagato e chi no e promuovono di conseguenza».
Con 4,3 milioni di abitanti la Moldavia è uno dei Paesi d’Europa a maggiore densità di popolazione, 10,88 nascite ogni mille abitanti contro le 8,54 dell’Italia. Sono poveri e fanno tanti figli, noi siamo ricchi e ne facciamo sempre meno. Come lo spiega?
«I figli li concepiscono per svago. I padri non riconoscono la prole per non averla sul gobbo. Le madri rifiutano il matrimonio civile perché la donna non sposata ha diritto a mandare i figli negli internati fino ai 18 anni. Quanto alle nozze religiose, la Chiesa ortodossa ammette fino a tre divorzi. Ma, se sganci qualcosa al pope, puoi arrivare a sei».
Lei che è stato a lungo anche in Romania, come risolverebbe il problema dei rom?
«I rom si comportano male anche là, non soltanto in Italia. Sono selvaggi. Però hanno un loro governo, formato da capiclan zingari che vivono in case di lusso e si compiacciono di pagarti il biglietto del parcheggio quando vedono la tua auto con targa italiana in una piazza di Bucarest. Il nostro governo dovrebbe interpellare questi capiclan e metterli alle strette. Sono loro che comandano, all’Est come all’Ovest».
Che cosa pensa dell’immigrazione clandestina in Italia?
«Deve entrare solo chi può essere ammesso a frequentare una scuola professionale dove s’insegna un mestiere. Non ne conosco uno, di quelli tornati a Chisinau, che non abbia imparato a fare il piastrellista a Vicenza o l’elettricista a Brescia. Alle nostre frontiere la domanda di rito dovrebbe essere: “Che diploma ha?”».
Non ha mai l’impressione di portare gocce d’acqua all’oceano?
«Sempre. Ma quando penso che c’è gente che percorre chilometri nella neve con le scarpe prive di suole per arrivare fino al camion degli aiuti... Mi baciano le mani: “Nessuno ci aveva mai regalato nulla”. Una volta una mamma ortodossa mi ha detto: “Siccome tu mi hai dato da mangiare, ora con i tuoi soldi andrò dal pope e comprerò una candela perché anche lui preghi per te”. Sono più generosi loro di me. Poi ogni tanto mi capita anche di vedere gli effetti dell’aridità seminata dal comunismo. Una ragazza s’era rovesciata addosso una pentola d’acqua bollente. Per curarle le ustioni servivano 300 dollari. Il padre contadino ne guadagnava 100 in un anno. In ospedale sono andati per le spicce: “O qualcuno paga o muore”. Ho pagato. (Si commuove).
(417. Continua)
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