Caro Granzotto, condivido appieno quanto lei sta scrivendo sul mitico «futuro» che i giovani, rivendicandolo, chiedono siano i vecchi a fornirlo su un piatto dargento. Però, quel 29 per cento dei giovani privi di prospettiva di lavoro e compresi nel non così drammatico, rispetto alla media europea, ma inquietante 8,7 per cento dei disoccupati fa pensare...
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Proprio così, caro Scarti. Quel 29 per cento di giovani che non riescono a trovare una occupazione è un dato allarmante. Sta a significare che lavvicendamento generazionale sè momentaneamente inceppato ed è evidente che bisogna far qualcosa per togliere di mezzo quel ceppo. I giovani e lampia porzione della società civile e politica che sè messa in testa che il futuro sia qualcosa da poter servire in confezione precotta già nel presente, pretendono che a rimuovere lostacolo sia lo Stato, regolando i flussi della richiesta e della domanda di lavoro. Qualcosa del genere lo si è già visto. Nella Russia sovietica e collettivista, ad esempio. Meglio ancora nella Cambogia di Pol Pot, dove il contadino analfabeta era chiamato a insegnare alluniversità e il laureato a pulire i cessi e non metaforicamente. Però, come ben sappiamo non ha funzionato. Per tornare ai fatti nostri, a quel 29 per cento, dobbiamo accostarvi, sempre che non si voglia essere ipocriti, un altro dato: come si legge nellultimo rapporto del Censis, le imprese lamentano la difficoltà di trovare almeno 150 mila figure professionali da assumere in pianta stabile. Non è dunque completamente vero che manchi il lavoro: se le nuove leve vogliose di futuro avessero risposto alla chiamata, la fascia della disoccupazione giovanile si sarebbe, e di molto, snellita. La verità è che manca il lavoro «giusto»: non il solito lavoro dipendente con le sue regole, i suoi obblighi, le sue responsabilità, i suoi orari e la sua disciplina. Vecchia roba non certo allaltezza delle aspettative giovanili, rivolte più che altro al libero professionismo, alle occupazioni intellettuali e «creative».
Se lei, caro Scarti, dovesse dare una scorsa al piano didattico del Dams - una divisione delluniversità di Bologna che sforna laureati a più non posso - troverebbe corsi di questo genere: Etnomusicologia, Forme della poesia per musica, Ergonomia dei processi cognitivi, Forme audiovisive della cultura popolare... Tutti argomenti interessantissimi, chi lo nega, ma il mercato della arti, della musica e dello spettacolo al quale i diplomati del Dam sarebbero indirizzati, ha davvero bisogno di legioni di dottori in ergonomia dei processi cognitivi? Senza dire delle lauree in Scienza (proprio così, scienza) della Pace, altre poderose fabbriche di scienziati sono i corsi in Scienza della comunicazione.
Paolo Granzotto
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