Roma - L’autocritica non piace alla Lega. Sembrava che lo choc per l’inattesa sconfitta elettorale subita all’ombra della Madonnina fosse stato riassorbito e le difficoltà di gestione tanto sul piano politico che su quello psicologico dello stop milanese - difficoltà vissute in parallelo e in modo altrettanto evidente dal Pdl - fossero rientrate. L’impegno messo in campo dal Carroccio tra il primo e il secondo turno testimoniava, infatti, come la tentazione dello scaricabarile avesse lasciato il posto, dopo lo scotto delle prime ore e la lunga, imbarazzata attesa a via Bellerio di un commento dei leader, a una rinnovata capacità di dialogo con il territorio. Una Lega capace di tramutare in energia il campanello d’allarme suonato nelle urne e fare di tutto per recuperare quella quota di elettorato leghista volatile, rimasto a casa al primo turno. Era questa la fotografia che molti avevano scattato osservando le mosse di ministri e dirigenti locali.
Nelle ultime ore, però, il Carroccio non si è dimostrato esente dal vecchio vizio della politica italiana di tentare di cantare sempre e comunque vittoria, lasciando sistematicamente la sconfitta a giacere in un orfanotrofio. Basta guardare il contenuto dell’intervista rilasciata a Repubblica da Matteo Salvini per rendersene conto. «Se si perde a Milano dopo che qualcuno aveva invocato un referendum su se stesso, mi aspetto che parta una riflessione. Ma in casa Pdl. Sono e restano il primo partito della coalizione» dice l’eurodeputato e capogruppo uscente della Lega al Comune di Milano, al quale «non sfugge» la portata del ballottaggio nel capoluogo lombardo «sul piano politico nazionale». D’altra parte era stato lo stesso Bossi, il 5 maggio scorso, a dire: «Se si perde a Milano a perdere è Berlusconi». «Il pallino nel male e nel bene è in mano loro - prosegue Salvini -. Onori e oneri. Ma ora tutti dobbiamo puntare a vincere». «Qualsiasi ribaltamento del tavolo - aggiunge - rischierebbe di fermare il lavoro» che la Lega ha intrapreso per il federalismo.
Salvini punta il dito contro i toni della campagna elettorale, a suo avviso «spesso lontana dai contenuti da entrambe le parti»: «Noi della Lega abbiamo avuto la netta sensazione che al primo turno molta gente si fosse allontanata infastidita perché si parlava più di palazzo di giustizia, di furti di auto o di Br che di Milano». In ogni caso, prosegue, in caso di sconfitta del centrodestra non è detto che sia segnata anche la fine del berlusconismo: «Milano è sopravvissuta ai barbari e agli spagnoli, sopravviverà anche a Pisapia». Nessuna polemica sulla scelta di Castelli come eventuale vicesindaco da parte di Letizia Moratti: «Noi della Lega siamo una squadra. Per noi non contano i cognomi».
A questo punto, dopo due settimane di ipotesi, fibrillazioni e tensioni amplificate dai retroscena giornalistici, si avvicina l’ora X e il verdetto definitivo di Milano. Se davvero si concretizzasse il successo del centrosinistra, la Lega si troverà a un bivio: restare fedele a Silvio Berlusconi e al governo, oppure accelerare la exit strategy dall’alleanza con il Pdl per «non farsi trascinare a fondo», per dirla con il pensiero dettato a caldo da Umberto Bossi, almeno stando ai resoconti riportati dei quotidiani. Scelte che potrebbero essere influenzate anche dai ballottaggi con un leghista in corsa, come quelli di Varese, Novara, la provincia di Mantova in alleanza con il Pdl, Rho e Desio in corsa solitaria e dalla portata numerica dei vari risultati.
Per il momento le previsioni indicano un Carroccio deciso a tenere duro e perseguire fino in fondo l’obiettivo del federalismo, pur senza rinunciare a operare dei distinguo parlamentari - ad esempio sul dl antidemolizioni - e a tenere aperto un canale di dialogo con il Pd su alcune questioni come quella della possibile riforma della legge elettorale in senso proporzionale, un’ipotesi che però è già stata fortemente ridimensionata dallo stesso Bossi. Ma gli equilibri appaiono instabili.
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