Legava le rime dove voleva il «padrone»

Prelati, principi, dame: con i suoi versi seppe incensare chiunque. Se la vide brutta quando l’accusarono di aver assassinato il genero. Ma il processo lo scagionò

Sul fatto che sia stato un indecente voltagabbana, non ci piove. Ma che si arrivasse a accusarlo di avere ucciso il genero, stupì oltremodo. Eppure la voce girò insistente, tanto da costringere le autorità a processarlo. Quando il fulmine gli cadde addosso, il Nostro era ormai semicieco e sulla settantina. Tuttavia, reagì con forza all’intrigo che lo aveva proditoriamente coinvolto.
La sua colpa era di avere messo al mondo trent’anni prima una figlia, Costanza, donna bellissima, colta e capricciosa. La ragazza aveva sposato ventenne un nobiluomo e valente cruscante romagnolo, Giulio, indispettendo uno stuolo di spasimanti. Il padre fu entusiasta della scelta e si affezionò oltremodo al genero che ricambiò amando il suocero come un padre. Ma mentre tra i due i rapporti erano magnifici, tra marito e moglie le cose andavano meno bene. Costanza infatti civettava, attizzando amori che suscitavano infiniti pettegolezzi. Così, quando Giulio morì nel 1822, la vox populi attribuì il decesso repentino del marito agli affanni che gli aveva procurato la «pessima moglie». Un bello spirito arrivò a suggerire che sulla tomba del defunto fosse inciso lo scritto: «La fiera moglie, null’altro mi nocque». All’origine di tanta acredine, la vendetta di innamorati respinti dalla fatale fanciulla.
Costanza, pur essendo sentimentalmente agli antipodi del suo nome, era però creatura sensibile e di sommo orgoglio. Tanto che, nonostante l’amarezza per le dicerie, non si abbassò a rintuzzarle. I maligni allora cambiarono obiettivo, insinuando che fosse stato suo padre a avvelenare il genero per ragioni di rivalità letteraria. L’accusa non stava in piedi essendo abissale il divario tra il semisconosciuto Giulio e il Nostro, che era celeberrimo. Ma la calunnia, si sa, è un venticello, e prese saldamente piede.
Instaurato il processo, l’imputato affidò la propria difesa al più noto patologo dell’epoca, Giacomo Tomassini. Lo scienziato ottenne la riesumazione del corpo di Giulio e lo ispezionò. L’autopsia non rivelò traccia di veleno. La morte era sopravvenuta per «flogosi» ossia «lenta infiammazione del fegato». La sentenza del cattedratico spazzò via i dubbi e restituì al vecchio l’onore perduto.
Prima di questa tragica vicenda, il Nostro era stato largamente baciato dalla fama e considerato «il principe dei poeti viventi». Come Pascoli era figlio di un fattore o, meglio, di un castaldo, come si chiamavano nell’Ancien régime i fiduciari delle grandi famiglie. Il casato per cui lavorava il padre era quello dei Calcagnini, ramo secondario degli Este. Da un ceppo di ortolani usciva invece la madre. Rampollo intermedio di nove figli, cinque dei quali abbracciarono la carriera ecclesiastica, anche il Nostro finì in seminario a Faenza. Ebbe la tonsura a 12 anni e fu chiamato abate, ma senza avere preso alcuno degli ordini sacri. Non aveva nessuna vocazione se non per la poesia e le belle donne.
Giovanotto prestante eternamente in amore, intrecciò il primo flirt a Ferrara, dove si era trasferito per studiare medicina. Cantò svenevolmente l’innamorata «una ninfa dolce dolce, ch’ogni cuor rapisce e molce», la quale però gli preferì un bellimbusto veneziano «che sul labbro ha sempre i favi, d’eloquenza i più soavi, mescolati alla natia, veneziana furberia». La delusione non gli lasciò traccia, divorato com’era dall’ambizione. Per soddisfarla, piroettò tra tutti i regimi che si alternarono negli anni tumultuosi in cui visse.
Cominciò con lo stabilirsi a Roma e trascorse un ventennio alla corte papale. Scrisse versi magnifici e untuosi per prelati, principi e damazze. Fu al servizio di Luigi Braschi, nipote di Pio VI, verso cui aveva un atteggiamento ben descritto in questa lettera a un’amica: «Odo che il Padrone s’alza. Mi do una spruzzata di polvere sul capo, mi metto le scarpe, e vo a dargli il ben levato». Nelle more però, amoreggiava con la moglie del datore di lavoro. Solleticando i sentimenti papalini, scagliò rime feroci sull’inviato dei rivoluzionari di Francia, il signor di Bassville, trucidato dalla plebe romana. Ma quando trionfò la Rivoluzione, prese a esaltarla.
Si trasferì a Milano, città giacobina, e sostenne di avere scritto il poema «sotto la minaccia dei preti». Il «buon rege» (Luigi XVI) dei versi romani, divenne «il sozzo spettro del tiranno caduto». Giunto Napoleone a Milano, si sdilinquì: «Bonaparte, il maggiore dei mortali, che geloso fa Giove lassù». Caduto l’Imperatore e tornati gli austriaci, sciolse un inno al nuovo padrone, il Kaiser asburgico Francesco I: «Dio di pace che non sa, ascoltar che la pietà». Consapevole di essere una frana, si autoassolse dicendo: «La mia debolezza non fu dannosa per nessuno». Ebbe un solo amore fisso: il suo Paese, cui dedicò dopo una breve fuga a Parigi, il celebre verso: «Bella Italia, amate sponde, pur vi torno a riveder!».

Lasciò di sé questo epitaffio: «Fui il cantor che di care itale note, vestì l’ira di Achille».
La sua tomba è scomparsa con la distruzione del piccolo cimitero milanese dove fu eretta. Di lui ci resta il cuore che Costanza donò in un’urna alla città di Ferrara.
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