Legge Biagi, la Cisl allo scontro con il governo

Allo studio la soppressione del lavoro a chiamata e dell’affitto di dipendenti da altre società

da Roma

I progetti di modifica della legge Biagi, ipotizzati dal ministro del Lavoro Cesare Damiano e anticipati dai giornali, non piacciono alla Cisl, nel merito e soprattutto nel metodo. «Ci sono in giro troppe anticipazioni e pochi tavoli - commenta il segretario della confederazione, Raffaele Bonanni -: ricordo al ministro del Lavoro che deve tenere a freno i suoi tecnici, e non dare l’illusione che basta un’ipotesi per farla diventare norma».
Quel che proprio non va giù alla Cisl è l’idea che la modifica della «Biagi» possa venire dall’alto, e non dagli accordi fra le imprese e i sindacati. «Le norme che ci servono - spiega Bonanni - sono quelle regolate dal sindacato con le imprese, con la sovrintendenza, se si vuole, anche del ministro del Lavoro, che se vuole può intervenire attraverso incentivi per favorire gli accordi». Damiano, che è stato sindacalista, «sa che il ministro del Lavoro ha il compito di aiutare le parti a trovare gli accordi». Al contrario, aggiunge il segretario cislino, far credere che il ministro possa modificare una norma è «pia illusione, che complica i processi anziché aiutarli». A Damiano, Bonanni dunque raccomanda «discrezione e senso di responsabilità». Inoltre, domanda se è previsto, a proposito della legge Biagi, un tavolo di confronto «trasparente ed efficace». E riferendosi alla cancellazione dello «scalone», precisa: «Non vorremmo che il governo, per eliminare un problema, ce ne crei due».
L’attacco di Bonanni va di traverso al ministro Damiano, che ribatte: «Alcune anticipazioni sulla Biagi sono già scritte nella relazione che ho tenuto al tavolo della concertazione, sono quindi note alle parti sociali. Altre sono sbagliate». Ma di che cosa si tratta? L’ipotesi principale è quella di fissare un «tetto» di tre anni ai contratti a termine: di fatto, al quarto anno diverrebbe più conveniente per l’impresa assumere il dipendente a tempo indeterminato. Verrebbero eliminate tipi di lavoro atipico poco o nulla utilizzati come il lavoro a chiamata (job on call) e lo staff leasing, ovvero l’affitto temporaneo di un dipendente di un’altra società. Sul fronte degli ammortizzatori, alle piccole aziende sotto i 15 dipendenti verrebbe concessa la cassa integrazione, ma autofinanziata, e verrebbe anche aumentata l’indennità di disoccupazione. Ma - soprattutto - la grande riforma della Biagi si tradurrebbe, secondo le anticipazioni di Repubblica, in un aumento dei contributi. L’incremento riguarderebbe le aliquote dei parasubordinati, che verrebbero portate al 33%, come quelle dei dipendenti. «Un’ipotesi che non è all’ordine del giorno adesso», precisa Damiano. In un secondo momento, però, si farà.
Né le cose vanno meglio sul fronte delle pensioni. Anche sulla previdenza, secondo Bonanni, c’è troppo brusìo, troppe chiacchiere, e nessun lavoro ai tavoli della concertazione. Ma sulle pensioni, Damiano è anche scavalcato a sinistra. Oggi i tre leader sindacali Guglielmo Epifani, Bonanni e Luigi Angeletti si incontrano con una folta delegazione della sinistra radicale, guidata da Franco Giordano, Fabio Mussi, Oliviero Diliberto e Alfonso Pecoraro Scanio, per discutere di previdenza, tesoretto e Dpef.
Contemporaneamente, in un cinema a pochi passi da Montecitorio, si riunisce un gruppone di deputati e senatori di Rifondazione, del Pdci, dei verdi, della Sinistra democratica più i «mussiani» e due ministri (lo stesso Fabio Mussi e Paolo Ferrero, titolare della Solidarietà) per dire «no» allo scalone, ma anche agli «scalini» proposti dal ministro del Lavoro. Dunque, abolizione dello scalone senza se e senza ma, richiesta da parte di un terzo dei parlamentari della maggioranza. Un’iniziativa che dovrebbe preoccupare i sindacati.

I contrasti fra riformisti e radicali della maggioranza ritardano infatti la già faticosa concertazione, introducendo elementi di incertezza e confusione. Il segretario cislino Bonanni chiede che i tavoli riaprano subito dopo il voto del Senato sul caso Visco. Ridotto com’è, il governo non può impegnarsi neppure su questo.

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