L'elogio di Mantovano, un deputato "capatosta" da non far scappare

Il sottosegretario all’Interno, dimessosi per l’emergenza Manduria, è di parola: non tratta su principi e valori. E alla poltrona antepone il suo onore

L'elogio di Mantovano,  
un deputato "capatosta"  
da non far scappare

Questo dimettersi per coerenza, è tipico di Alfredo Mantovano che è una nota capatosta. Quando qualcosa urta i suoi principi, il sottosegretario all’Interno - ora, ex - deve reagire. Non c’è santo che tenga. Figurarsi poi se a stargli sul gozzo sono più cose, come nella vicenda di Manduria. Sarebbe già bastato a fargli saltare la mosca al naso che dei rifugiati nel centro di accoglienza anziché i 1.500 previsti, ne siano stati minacciati il doppio.
Mantovano aveva assicurato i manduriani (o manduriesi?), che sono anche suoi elettori, essendo deputato della Puglia, che tutto finiva con la prima infornata da Lampedusa. E quando un tipo come Alfredo ci mette la faccia è come zia Cecilia con la torta di mele: se va buca, ne soffre l’onore. A Manduria è però successo di peggio. Erano attesi profughi della guerra libica e sono arrivati invece tremila clandestini dalla Tunisia. Dunque, il doppio della folla e neanche quella in fuga dalle bombe, ma la solita infornata di senza permesso che ha preso Lampedusa per il pattino del bagnino. Tutta gente che, per legge, deve essere radunata in centri attrezzati antifuga, prima di essere rispedita in patria. Manduria invece è un colabrodo.
Per molto meno Alfredo avrebbe sbattuto il pugno sul tavolo, terminologia però inadatta a un politico calmo e misurato come lui. Mantovano è quello che vedete in tv: faccia da sfinge e argomentare da tritasassi. Parole pacate, occhi fermi e un erre moscia pugliese che ti dondola come un’amaca.
Questo austero personaggio sembra uscito dal reparto «Ragazzi modello» della bottega del Creatore. Nato a Lecce 53 anni fa, non ha nulla del barocco ghirigorato della sua città. Sotto ogni cielo, porta giacca e cravatta con l’aria di un gesuita in borghese. È timoratissimo di Dio, cattolico tradizionalista, ratzingeriano ante litteram. Si dichiara seguace del «pensiero forte», ossia fondato su valori eterni e non trattabili. È cofondatore di un’opera che prende appunto il nome di Dizionario del pensiero forte sui cui ha scritto di aborto (contro) e altri temi a cavallo tra etica e diritto. Un bacchettone coi fiocchi.
È stato magistrato e lo ha fatto all’antica. Non ha preso cantonate, non ha passato veline ai giornali, ha riflettuto prima di condannare. Con questi trascorsi, bacchetta oggi gli ex colleghi che si comportano all’opposto e abusano del potere come il satiro di una vergine. Li ha pubblicamente rimproverati di impicciarsi del talamo berlusconiano anziché agire contro la criminalità, di scrutare avidi le rotondità di Ruby e chiudere gli occhi sul casino che ci circonda.
Conservatore com’è, Alfredo ha scelto di militare prima nel Msi poi in An, all’epoca alfieri del passato. Ha debuttato alla Camera nel 1996 e all’istante - rara avis - ha rinunciato alla toga. Sua protettrice fu la concittadina Adriana Poli Bortone, futuro sindaco An di Lecce. Legò subito con Fini che poco dopo invece cominciò a litigare con Pinuccio Tatarella, che del medesimo Fini era il cervello e della Puglia il ras. Pinuccio iniziava a capire che Gianfry era un instabile e ne prendeva le distanze. Alfredo non fu altrettanto acuto e si lasciò utilizzare. Così, per indispettire Tatarella, Fini nominò Mantovano coordinatore di An per il Sud, facendolo crescere a detrimento dell’altro. Poi Pinuccio morì e Alfredo tornò in sé. Ma ne parliamo dopo.
Non vi meraviglierà sapere che Mantovano ha un lato battagliero e donchisciottesco. Alle elezioni politiche del 2001, anziché rientrare pigramente in Parlamento col recupero proporzionale, volle sfidare D’Alema nel collegio uninominale di Gallipoli. Un combattimento a tu per tu. Confrontato a un leader nazionale che l’anno prima era premier, Mantovano divenne a sua volta una star. Fece una bella battaglia, mostrò la sua oratoria e perse per appena tremila voti. Ma la vittoria morale, andò a lui. Tant’è che il Cav lo volle sottosegretario all’Interno nel suo governo 2001-2006. Così abbiamo cominciato a conoscerlo: documentato e baciapile. È tornato nelle stesse stanze nel 2008 dopo aver sfiorato la poltrona di guardasigilli in un testa a testa con Alfano. La «promozione» fallì per il veto di Fini.
E qui veniamo alla rottura con il capo. Ci fu quando Gianfry era già diventato antifascista, insofferente del Cav, fraterno di Casini e simpatizzante di D’Alema. Ma non avvenne sul terreno politico. Successe per motivi etico-religiosi. Ricorderete che nel 2005 ci furono quattro referendum abrogativi sulla procreazione assistita. Fini, che aveva ormai raggiunto lo stadio evolutivo del laico di tre cotte, si dichiarò per la procreazione artificiale contro i pii auspici di abati e monsignori. Da fedele del gregge del Signore, Alfredo si inalberò. Non poteva sopportare che il suo capo facesse di testa sua, influenzando pubblicamente l’elettorato e contro - a suo parere - i sentimenti maggioritari del centrodestra. E allora inaugurò quello che replica in queste ore: rimettere il mandato. Mantovano era all’epoca coordinatore di An in Puglia. Lasciò bruscamente l’incarico e fu irremovibile. Da allora, non ha avuto più ruoli nel partito. Oggi, è l’oscuro capo della corrente (una ventina di parlamentari) di Gianni Alemanno, sindaco della Capitale.
Per concludere.

L’ex sottosegretario tra poltrona e faccia, sceglie la faccia. Se ora non cambia idea, ci molla da soli con gli altri. Quelli con la faccia di tolla e la poltrona attaccata con l’ossidrica. Ma che ti abbiamo fatto, Alfredo, per lasciarci orfani?

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica