La passione di Giacomo Rizzolatti è il cervello. All'inizio si occupava di gatti. «Facevo studi sul sonno, e i gatti sono i migliori: dormono». Poi è passato a lavorare sulle scimmie: si era messo a esaminare un'area motoria del cervello, che però «rispondeva a stimoli visivi». Da questa scoperta ne è arrivata una importantissima per le neuroscienze, che alcuni suoi colleghi hanno paragonato a quella del Dna nella biologia: i neuroni specchio. In pratica, la base dell'empatia. Una scoperta fatta con il suo team, qui all'università di Parma, dove Rizzolatti dirige il dipartimento di Neuroscienze e che ha fatto sì che il suo nome sia finito più volte fra i possibili candidati al Nobel e che vincesse il Brain Prize due anni fa. E quando ti fissa coi suoi occhi chiari sembra proprio vero il titolo del suo libro: So quel che fai, un volume, pubblicato da Raffaello Cortina Editore, in cui racconta la sua scoperta nei dettagli, con il contributo di Corrado Sinigaglia, filosofo della scienza. Del resto, a 79 anni il suo vero sogno resta «avere ancora la curiosità, il desiderio di conoscere».
Professore, partiamo dall'inizio. Lei è nato a Kiev, come mai?
«Il mio bisnonno, friulano, emigrò in Russia a fine Ottocento. Aveva un'impresa di costruzioni, lavorava soprattutto coi marmi. Contribuì anche a costruire il teatro di Kiev, la famiglia diventò ricca».
E con la rivoluzione?
«A differenza del fratello mio nonno decise di restare, come impiegato di una impresa nazionalizzata. Lì siamo nati mio papà e poi io».
Quindi sua mamma era ucraina?
«Sì. Ora si dice ucraina, allora era tutto russo... Comunque, a un certo punto i rapporti con l'Italia diventarono difficili e i cittadini italiani furono rimandati a casa. Così tornammo tutti in Friuli e, siccome bisognava stare nel paese d'origine, ci trasferimmo a Clauzetto: mille abitanti».
Che cosa facevano i suoi genitori?
«Erano entrambi medici. Un destino segnato. Anche se i miei figli hanno fatto legge... Ma per me è stato naturale studiare medicina».
E come mai neurologia?
«Amavo la filosofia al classico. Così pensai che un buon compromesso potesse essere neurologia, o psichiatria. Poi ho scelto neurologia».
Però nel suo studio ha i libri di Freud...
«Molti sono dei ciarlatani, usano Freud per curare, ma lui era molto intelligente. Io mi specializzai a Padova, poi andai a Pisa perché c'era un centro di elettrofisiologia all'avanguardia, seminari in inglese, venivano i Nobel in visita».
Lei è stato citato spesso, a proposito di Nobel.
«È vero, sono anche stato dato per favorito, ma è qualcosa su cui non bisogna essere paranoici. Del resto lo danno per medicina e fisiologia, l'ambito è ampio».
Una volta ha detto che a Stoccolma «trascurano» le neuroscienze. È vero?
«Sì, per molti anni, quasi venti non c'è stato un premio a neuroscienziati. L'Accademia è fatta da gente che si occupa di cellule e molecole e ammira gli studi in questi campi. Infatti c'è il Brain Prize per coprire il buco».
Come ha usato i soldi del premio?
«È un milione, ma noi eravamo in tre. Ho diviso i miei trecentomila euro in tre: centomila al Dipartimento, centomila ai figli, e altri centomila li ho tenuti io».
È stato generoso...
«Qui c'è gente che non ha una lira. In Italia c'è una cosa folle: o hai i fondi europei, o fai la fame. Almeno facciamo un po' di ricerca».
Ma come è arrivato alla scoperta dei neuroni specchio, negli anni Novanta?
«Da Pisa ero venuto a Parma perché c'era un posto a Fisiologia. Entrai come assistente, poi diventai di ruolo. Studiando la visione, per caso ho scoperto un'area motoria che rispondeva a stimoli visivi. Così ho organizzato un gruppo, per rivedere l'anatomia e la fisiologia del sistema motorio».
Che cosa avete trovato?
«Una sorpresa. Negli esperimenti ci siamo accorti che alla scimmia non interessava l'oggetto, bensì il fatto che l'altro lo prendesse. E questo è il neurone specchio: perché rispecchia quello che fai tu».
Accade solo con stimoli visivi?
«No, anche con quelli uditivi. Infatti si attivano anche nei ciechi».
Che cosa succede esattamente?
«La scimmia vede l'uomo che afferra il cibo, e c'è una scarica del neurone, esattamente come quando è la scimmia a prendere il cibo. Non c'è processo inferenziale: è immediato».
E negli uomini?
«Grazie a un esperimento al San Raffaele abbiamo visto che nell'uomo avviene lo stesso. E poi, a Marsiglia, abbiamo fatto un esperimento sulle emozioni: se vedi uno disgustato, provi disgusto. Lo stesso per il riso».
E per il dolore?
«È più difficile. Prima senti, poi reagisci».
A 79 anni ha sempre voglia di fare ricerca?
«Una delle mie idee favorite è quella dei prof a quinquennio. Per me dovremmo essere tutti precari, perché la creatività non è eterna. Dopo i 50 si cambia, cade la motivazione per la ricerca. È una bugia che siamo tutti bravi uguali».
Che cosa sono i prof a quinquennio?
«Come in Giappone, ogni cinque anni fai un controllo. Se non funzioni più, ti tolgono dalla ricerca. Fai altro. Ma i giovani sono contrari, dicono: parli facile, tu che hai avuto un contratto per tutta la vita. Però così, se uno lavora può comunque restare per la vita».
Che altro servirebbe all'università italiana?
«Ho un'altra idea, un modello californiano: un gruppo di università di eccellenza per concentrare la ricerca e un gruppo di atenei buoni per insegnare. Non c'è bisogno di un luminare della scienza per curare i denti».
Ma perché la sua scoperta è considerata così rivoluzionaria?
«Perché indica uno dei meccanismi attraverso cui capisci l'altro, le sue azioni e le sue emozioni: o partecipo, sento quello che senti tu; oppure mi mandi una emoticon e capisco che sei di cattivo umore. Questa dualità ha conseguenze sociali».
Cioè?
«Se ho il meccanismo vero, di comprensione, considero l'altro una persona; altrimenti, solo col meccanismo cognitivo, senza partecipazione, l'altro può essere anche un oggetto. È ciò su cui fa presa la propaganda».
La capacità di provare empatia si può manipolare?
«In male, credo sia semplice. Ed è inquietante, certo. Internet in questo ha un potere enorme».
E si può migliorare?
«Difficile. Ci stiamo provando. Torni fra un paio d'anni».
Che cos'è il cervello?
«Siamo noi. È l'essere, la sede di tutto: le emozioni, i sentimenti, la nostra capacità di muoverci. Noi siamo il nostro cervello, anche se l'esperienza ci dice che il corpo vuol dire molto. È l'organo più difficile, più complicato».
Il mistero più grande?
«Come fa un pezzo di materia a pensare se stesso? A pensare, amare, odiare... Il problema della coscienza per ora non l'abbiamo nemmeno affrontato».
E gli altri misteri del cervello?
«Sul resto, presto sapremo tutto».
La comprensione emotiva è più importante?
«È fondamentale. La base della nostra società».
Ha un sogno?
«Solo di andare avanti a essere interessato a quello che faccio, a essere curioso. Qualcosa tipo scoprire la base della coscienza? Ai miei studenti dico sempre: partite da cose modeste».
E un sogno pratico?
«Che ci sia un'università che funzioni. Fra poco l'Italia ne avrà una da terzo mondo, è terrorizzante».
Non vorrebbe andare su una bella spiaggia?
«No, alle Hawaii uno si stufa. Sono andato a fare una lezione alle scuole medie da mia nipote e i ragazzi mi chiedevano: ma queste cose le hai fatte in America, vero? È triste».
Però le ha fatte qua.
«Sì, questo è bello».
Siamo macchine?
«Siamo strutture fisiche. Quasi certamente non abbiamo il libero arbitrio, però ci sono tanti aspetti emozionali. La nostra libertà non è assoluta, ma abbiamo tanta libertà, tanta possibilità di scelta».
Ma macchine...?
«Non siamo macchine nel senso dell'intelligenza artificiale. Emozione e sentimenti hanno un peso enorme nelle nostre decisioni. Siamo molto più complicati».
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