La lezione di Sturzo sullo statalismo

La lezione di Sturzo sullo statalismo

Gabriella Fanello Marcucci

Sono in molti a parlare di «stato sociale», spesso sottolineando il proprio impegno a sostenerlo - ed anzi ad allargarne i contenuti - indicando «altri» come insensibili e inadempienti di fronte a esso. Questi «altri», mai esplicitamente identificati, sono per convenzione non detta coloro che affermano la libera iniziativa in economia e che hanno nei propri intenti politici il superamento, quanto più possibile, dello statalismo.
Questa contrapposizione non nasce adesso e vive, per lo più, anche all'interno di uno stesso partito; almeno in quelle compagini nelle quali il dibattito sia più aperto. In molte di queste formazioni esiste una corrente o una tendenza, connotata da diversi nomi ma che attribuisce a se stessa l'aggettivo «sociale».
La contrapposizione è frutto di un equivoco non chiarito; che tende a classificare come insensibile verso la giustizia «sociale» - è utile ripeterlo - chiunque indichi come una strada efficace quella della libertà economica. L'uso del termine sociale crea un certo imbarazzo, per l'abuso che se ne fa, e per i significati estensivi che gli si attribuiscono; è questo il motivo delle virgolette usate in questo scritto.
È una constatazione non arbitraria che chi parla molto e spesso di Stato sociale, nella maggior parte dei casi si intende poco di economia.
Si può rileggere, per questo, un colloquio a distanza tra Giorgio La Pira e Luigi Sturzo. Il sindaco di Firenze - il quale sosteneva in modo messianico e anche suggestivo il dovere dello Stato di impegnarsi a favore dei poveri - aveva scritto nel 1954 una lettera al presidente della Confindustria nella quale si compiaceva che l'economia moderna fosse essenzialmente «statale», vedendo in questo una via per favorire la «povera gente».
Sturzo rispondeva dalle colonne del Giornale d'Italia il 13 maggio 1954, riconoscendo tutte le buone intenzioni del sindaco di Firenze, ma sottolineando, tuttavia, i limiti del suo ragionamento che credeva nella gestione statale dell'economia come via per raggiungere uno «Stato sociale».
Scriveva Sturzo: «L'errore degli statalisti, siano conservatori o democratici, paternalistici o totalitari, consiste proprio in questa credenza \. Nessuno può mettere in dubbio che le gestioni statali o parastatali siano quasi tutte passive e, nella migliore delle ipotesi, anche se attive costino più di quelle private. Due le cause: mancanza di rischio economico che attenua il senso di responsabilità; interferenza politica che attenua o annulla, secondo i casi, la caratteristica dell'impresa. Non nego la necessità di interventi statali di eccezione per casi eccezionali, interventi temporanei e adeguati; nego che lo Stato debba annullare la libertà economica sotto il pretesto della socialità, non solo per il valore morale della libertà, ma anche perché i conti non tornano, siano conti caso per caso, siano i conti generali del ciclo economico».
La Pira rispondeva ribadendo il suo dovere, come sindaco, di cercare di risolvere le più difficili situazioni economiche dei cittadini della città che rappresentava. Ricordava anche, il sindaco, il suo passato antifascista. Don Sturzo a sua volta proseguiva il colloquio riconoscendo ogni merito a La Pira, ma tuttavia ribadendo le sue precedenti affermazioni: «La mia difesa della libera iniziativa è basata sulla convinzione scientifica che l'economia di Stato non solo è antieconomica, ma comprime la libertà e per giunta riesce meno utile, o più dannosa secondo i casi, al benessere sociale \.
«Pure qualche legge economica esiste, che nessun La Pira potrà negare, anzitutto quella della quantità dei beni in rapporto ai soggetti da soddisfare. La Pira si appella spesso al Vangelo; ricorderà che le due volte che il Figlio dell'uomo volle dare da mangiare alle folle, prima moltiplicò i pani e i pesci e poi li fece distribuire. Noi, che non siamo taumaturghi, dobbiamo "mangiare il pane nel sudore della fronte", in esecuzione della condanna divina ad Adamo. Quindi coltivare, seminare, raccogliere e distribuire».
Lo svolgimento e l'intensificarsi delle prime tre di queste azioni, che in sintesi costituiscono la produzione e la produttività, sono l'indispensabile presupposto perché lo Stato possa redistribuire la ricchezza. Scriveva ancora Sturzo in altra occasione: «La disoccupazione si combatte con l'aumento della produttività e dell'utile scambio dei prodotti. La situazione sociale si va migliorando come aumenta il reddito annuo del Paese. Lo Stato deve fare da camera di compensazione fra le classi, con una finanza robusta, che dia margini a migliorare le condizioni del risparmio e le possibilità del credito».
Queste affermazioni di Sturzo, che conservano ancora oggi la loro attualità, erano condivise da altri, studiosi e politici, di diversa formazione culturale e che muovevano il loro ragionamento da diversi punti di partenza.

È proprio questa convergenza sulle stesse conclusioni - che affermano la libertà di iniziativa in economia - che conferisce a quelle parole e a quelle affermazioni il più ampio valore e significato.

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