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Una lezione di vita dalla «precaria»

Ognuno di noi ha incontrato, almeno una volta nella vita (forse solo quella volta; magari solo per un’ora) una supplente scolastica. La supplente: figura senza identità, senza personalità, senza futuro. E proprio per questo, nell’intuizione poetica di Giuseppe Manfridi, simbolo di tutto ciò che trascurabile e imponderabile, ma in definitiva «meraviglioso», la vita può riservarci. Coglie così di sorpresa i suoi temporanei allievi, La supplente di Manfridi in scena all’Orologio (fino a domani): dentro una saletta angusta come un'aula, lei dalla cattedra gli spettatori nei banchi, rifiuta di considerarsi solo «una precaria della vita»; esalta il «miracolo» di quell’incontro, nonostante (o forse proprio per) la sua casualità; perora la causa di tutti coloro che sono catalogati come «minori», dai dimenticati della Letteratura a se stessa. E si lancia in una memorabile lezione di vita, che negli allievi-spettatori, prima sbigottiti poi via via conquistati, anche grazie a un finale drammatico lascerà proprio quelle tracce di cui lei, in quanto supplente, si riteneva incapace. Il risultato è un ironico e disperato processo d’auto-affermazione, mascherato da monologo, simile nella struttura ma forse più poetico ancora dell’indimenticabile Signorina Margherita di Athayde (in cui trent’anni fa trionfò Anna Proclemer).

E anche qui la «lezione» non insegnerebbe nulla, senza la splendida attrice per cui è stata scritta: una Silvia Brogi tutta nervi, impeto e ironia, che senza risparmio di sé generosamente offre testa e cuore alla rutilante signora, imprimendo alle sue solo apparenti farneticazioni (col sostegno della regia di Claudio Boccacini) un ritmo fascinoso e trascinante. Fino ai travolgenti, meritati applausi conclusivi.

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