Controcultura

L'Homo migrans ostaggio di globalismo e anatemi

L'immigrazione di massa come completamento ideologico della mondializzazione finanziaria

Stenio Solinas

Si può discutere di immigrazione e di ciò che le ruota intorno (accoglienza e/o xenofobia, cittadinanza e/o diversità, sovranità e/o assetti geopolitici) senza insultarsi? È ciò che si propone di fare Giuseppe Giaccio con Homo migrans (Diana edizioni, pagg. 188, euro 14), che non a caso ha per sottotitolo «Un'analisi realistica dell'immigrazione», ovvero cause, attori, esiti politici, economici e sociali del fenomeno migratorio, sottoposti a un vaglio scientifico quanto spassionato.

Giaccio, già autore di un interessante saggio sulla politica nell'era della globalizzazione, Pluriverso, e di un altro su La decrescita. Un mito post-capitalista, parte dall'assunto che il discorso sulle migrazioni è «inquinato» da un alto tasso ideologico che ne impedisce «un'analisi che sia il più possibile sine ira et studio». È senz'altro così, ma verrebbe anche da dire che non può essere altrimenti e che l'ideologia, in quanto tale, non è una parolaccia, né una bomba a mano da scagliare contro chi non la pensa come te. Si possono avere ideologie diverse, ma non per questo confrontarsi incivilmente e l'impressione è che da quando si è andati sempre più predicando la loro scomparsa, paradossalmente si è venuto configurando un pensiero unico che liquida come «ideologicamente totalitario» tutto ciò che gli si oppone. Giaccio ha ragione quando per «uscire dalla trappola ideologica che imbriglia la discussione sul fenomeno migratorio» suggerisce di rifarsi al «senso comune» vichiano, «l'incarnazione storica e molteplice della vis veri», di cui la variante novecentesca è la «common decency» cara a George Orwell, ovvero il «ci sono cose che non si fanno», ma anche qui, fra «senso comune» e «luogo comune» il confine è altrettanto sottile di quello fra ideologia come sistema di idee connesso con le azioni e il suo carattere mistificante di credenza politica.

Costruito su densi capitoli che spaziano dall'operazione Mare Nostrum al «falso dilemma» ius soli-ius sanguinis, all'impotenza dell'Europa stretta fra crisi statuale e globalizzazione, all'«impero mondiale del disordine», Homo migrans mette comunque sul tavolo tutti gli elementi che contribuiscono a una conoscenza completa del tema e a una verifica empirica delle posizioni ideologiche a questo sottese. Lo fa precedere da un'introduzione di Diego Fusaro in cui la concordanza fra la «liberista Destra del Denaro» e la «libertaria Sinistra del Costume» illumina uno dei corni del problema, vale a dire l'immigrazione di massa come completamento ideologico della mondializzazione finanziaria e insieme come stadio terminale di un pensiero di sinistra classico, di una visione del mondo classicamente di sinistra, di un'ideologia di sinistra, in ultimo, gli umiliati e gli offesi, la coscienza di classe e i diritti sociali, la ribellione contro l'uomo ridotto a merce e il lavoro come schiavitù...

L'altro corno del problema rimasto in ombra non riguarda tanto l'aporia insita in un'ideologia di destra liberista che vuole la globalizzazione, ma alza i muri contro l'immigrazione che ne è il logico corollario, ma ha a che fare con il corto circuito di una impostazione xenofoba talmente idiota da non accorgersi di quanto sia limpidamente di sinistra una critica del fenomeno migratorio. Facciamo un paio di esempi banali. Il lamento sull'incapacità politica di costruire uno Stato che non costringa i suoi figli più deboli a emigrare per necessità, o la cosiddetta «fuga dei cervelli» in quanto inutilizzati in casa propria, fa parte di un leitmotiv intonato dalla sinistra novecentesca e ancora adesso. Curiosamente però, ciò che era un'umiliazione nazionale e un depauperamento intellettuale diviene per gli Stati africani e asiatici una risorsa e un fattore di crescita. Se ne vanno da lì i migliori, ovvero quelli che hanno maggiori opportunità e si applaude quell'esodo mentre ci si indignava e ci si indigna per il proprio...

Si è costruita a sinistra, per molti anni, l'idea del localismo identitario, la cucina a chilometro zero, le specificità regionali contro il centralismo, l'elezione diretta del sindaco, i circoli Arci e le bocciofile, le sezioni di partito, i centri sociali e la lotta contro la delocalizzazione industriale, per farla breve la costruzione di una rete di riferimenti intorno al lavoratore e al suo mondo familiare. E però con la disinvoltura dell'«accogliamoli tutti» non si dice una parola sullo sradicamento culturale e esistenziale che quello slogan comporta, la perdita di usi, costumi, abitudini, amicizie...

Ora, come scrive Giaccio rifacendosi al pensiero di Slavoj Zizek, questo venir meno della sinistra a se stessa ha anche a che fare con un'impotenza politica ipocritamente nascosta dietro il mantello della solidarietà e dell'accoglienza, «le anime belle che si sentono superiori alla corruzione del mondo mentre ne sono segretamente complici: hanno bisogno di questo mondo corrotto perché è l'unico campo nel quale possono esercitare la loro superiorità morale».

Detto in altri termini, ciò che il tema dell'immigrazione mette radicalmente sul tappeto è, nonostante la sua evidenza palmare, proprio la negazione della realtà con cui la sinistra che ancora ama definirsi tale, aggiungendovi però l'aggettivo «progressista», continua a baloccarsi, nonostante contro il muro di quella realtà abbia finito con lo schiantarsi. Negazione che significa rifiuto di vedere quel che si vede.

Lì dove noi persone reali constatiamo che la globalizzazione giova a pochi, ma minaccia molti, che le patologie sociali legate all'immigrazione si ampliano, che l'aumento degli immigrati provoca una corsa al ribasso della loro stessa forza lavoro e innesta un'ulteriore guerra fra poveri, che, per dirla tutta, i migranti non risiedono in via Montenapoleone a Milano o in via Condotti a Roma e non portano via il lavoro agli amministratori delegati, ciò che il pensiero progressista gli oppone è l'anatema, la lacrima e la predica, il continuare a vivere in un mondo fittizio di cui ha fatto il prolungamento di se stessa.

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