Libri pochi, slogan molti: show da carrozzone itinerante

Che senso ha una manifestazione piena di ospiti sovraesposti tutto l'anno? Nessuno. Hanno già le valigie pronte per Pordenonelegge. Poi tutti in tv da Fazio e Dandini

Libri pochi, slogan molti: show da carrozzone itinerante

Mantova - Come recita, ripetendosi, il più scontato luogo comune sul festival, «Mantova ha inventato un modello imitato in tutta Italia». Un modello replicato nelle idee e nei pregi. Ma anche nei limiti e nelle imitazioni. Tutta l’Italia alla fine è un grande festival, e tutti i festival alla fine sono uguali.

Dovrebbero soprattutto far leggere i libri, invece fanno solo parlare gli autori. Dovrebbero aumentare gli spazi della letteratura, invece offrono più spesso il palco alla politica. Dovrebbero suggerire nuove idee, invece ripetono vecchie ideologie. L’hanno notato in tanti, qui a Mantova. Sono più affollati i dibattiti che i reading. Hanno più successo i giornalisti dei poeti. Interessa molto più l’attualità italiana che la narrativa straniera. Poche pagine e tanti slogan. Un menù più politico che letterario: e non si capisce se sia il pubblico a sceglierlo, e quindi l’organizzazione a servirlo, o l’organizzazione a proporlo e il pubblico a farselo andar bene. È quel che passa il momento.
Tanto, il pubblico è ammaestrato e applaude a comando. Se Corrado Augias difende (indirettamente) Vito Mancuso e la sua critica alla Mondadori, tutto il Cortile della Cavallerizza batte le mani. Se Antonio Pennacchi gli dà (sempre indirettamente) dell’infame, l’intero Teatro Ariston si alza in una standing ovation. Il curioso è che la gente è la stessa. E anche gli autori, purtroppo.

Mantova smonta il tendone, la compagnia di giro sale sui camper e fra tre giorni si fa tappa in Friuli: «Prego Signori, entrino. Benvenuti a Pordenonelegge». Stessi ospiti, stessi libri, stesso pubblico. Stesse idee, perché la fantasia scarseggia ovunque. E solita campagna elettorale, perché l’antiberlusconismo è in servizio permanente effettivo su tutto il territorio. Che nausea. Partono da Mantova, passano da casa, e senza disfare neppure la borsa-omaggio con dentro la torta sbrisolona e i tratto-pen dello sponsor, ripartono per Pordenone. Fino a ieri erano qua, da domani sono là. Sono i pendolari dei festival, gli stacanovisti del pensiero, i travet della cultura.
Corrado Augias ha presentato l’altroieri il suo nuovo libro in uno degli ultimi appuntamenti del festival di Mantova, e aprirà dopodomani quello di Pordenone con una lectio magistralis dal titolo «Perché leggere». Risposta: in effetti non lo so, dato che ti sento tutti gli anni a Mantova, ti leggo ogni giorno su Repubblica e ti vedo tutte le sere da Fabio Fazio. Che noia che fa. E dopo la A di Augias, anche la B di Belpoliti, la C di Corona, e poi – guarda caso – la neo vincitrice del Campiello Michela Murgia, che a Pordenone ripeterà le stesse indignazioni che ha detto a Mantova, Margherita Hack che rifarà le identiche previsioni catastrofistiche su questa Italia malata, Antonio Pennacchi che riproporrà l’ennesimo show anti-tutto e anti-tutti, e poi l’intero Circo Barnum della Cultura Italiana: i funamboli che pubblicano per Mondadori, ma sputano in faccia a Berlusconi; i trapezisti che si arrampicano sugli specchi del pericoloso regime berlusconiano, ma potendolo dire in piazze strapiene, ripetendolo in prima serata televisiva e rispiegandolo sulle pagine dei due giornali più venduti del Paese; gli illusionisti che vogliono convincerti che anche Moccia, la Murgia e la Vallone sono letteratura, quando invece sono solo libri; e poi i soliti nani del pensiero, i domatori di volumi, i clown della scrittura, e le ballerine. Perché se porti i tacchi, a Mantova sei troppo di destra. Come la Santanché, «Che figurati se legge un libro».

Maurizio Maggiani, Emanuele Trevi, Antonio Franchini. Già sentito, già letto, già visto. L’unica differenza è che a Festivaletteratura c’è Gustavo Zagrebelsky, a Pordenonelegge Natalino Balasso. Non ci rimane che Gianrico Carofiglio. Alla fine, gli unici scrittori italiani importanti presenti a Mantova erano quelli morti. Flaiano e la Pivano.
Ma per fortuna ci sono gli stranieri. Solo che a Mantova l’incontro con Seamus Heaney è stato annullato, quello con V.S. Naipaul è stato rovinato e quello con Edmund White relegato alle 10 della domenica mattina in un teatro di periferia.

Ridottisi a periferie del pensiero, in realtà i festival sono il centro della politica. I predicatori sono sempre gli stessi, la linea è quella, e le parole d’ordine identiche: questa destra è impresentabile, la democrazia è a rischio, qualcuno vuol mettere a tacere Saviano, noi non ci faremo mettere il bavaglio. E invece vi servirebbe: per pulirvi la bava che avete alla bocca. Che rabbia.

Il festival di Mantova è finito: con il solito «successo di pubblico» che spingerà l’organizzazione a «lavorare con passione alla prossima edizione». E fanno 15. L’impressione, però, è che il pubblico sia rimasto lo stesso della prima.

È invecchiato con il festival: tante signore, pochi ragazzi. Ma tant’è. Chiuso un festival, se ne apre un altro. E per il resto, come impone il più scontato luogo comune sul festival, «sarebbe ingiusto negare il fascino degli scorci suggestivi di Mantova».

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