Al libro di pietra del Vate manca ancora un capitolo

Il Vittoriale fu il teatro della gioia di vivere di Gabriele d'Annunzio Ma non sarebbe mai sorto senza l'architetto (e spiritista) Moroni

D opo avere deciso di trasferirsi in quello che sarebbe diventato il Vittoriale, nel 1921, a d'Annunzio occorreva un architetto originale, creativo e talentuoso, ma anche abbastanza umile da interpretare senza discussioni tutte le sue volontà. Lo trovò in Gian Carlo Maroni, ventotto anni e già una certa fama di eccentrico. Originario di Arco, in Trentino, reduce valoroso della Grande guerra, appassionato di mediumologia, barbetta francescana, il giovane architetto forse non immagina neppure cosa lo aspetta con un committente oppressivo, capriccioso fino alla persecuzione, al quale basta un minimo indugio per tempestarlo con un monito di fuoco: «Ricordati che le cose che mi piacciono io, sin dall'infanzia, le voglio subito, subbito, subbbito!», dice forzando il dialetto pescarese.

Il libro di pietra che Gabriele scrive giorno dopo giorno, però, è soprattutto il teatro della sua gioia di vivere. Gabriele si diverte, e basta poco per ravvivargli entusiasmi quasi infantili. Sa ancora incantarsi per poco: «Convien forse che tu ti rallegri nel vedere come io sia tuttora fanciullo!», scrive a Maroni nel 1924. Eccolo mentre sguazza in mezzo alla corte delle sue servitrici, che si contendono un posto migliore fra i suoi affetti. Battute, canzonature, frizzi: sornione e sorridente delle miserie altrui, se è in vena non disdegna i panni dell'istrione e non disdegnerebbe neanche quelli del saltimbanco, se le gambe glielo permettessero. Si innamora dei ritmi che arrivano dal Nuovo Mondo, soprattutto i dischi di jazz: «Bisogna cercare altri Jazz-band, e comprarne ancora una decina - dei più belli. Jazz-band, Jazz-band, Jazz-band! Balliamo tutta la notte», scrive alla fedelissima governante-amante Aélis, che sta alle amanti di d'Annunzio come Maroni sta al Vittoriale.

E via, con il programma dettagliato di una giornata senza un attimo di tregua, dove ogni cosa è «sbrigata» con euforia. Incontri, attività - insomma la gestione del singolo minuto - si susseguono come se non avesse un secondo da perdere, appigliato con le unghie a un'appendice di giovinezza. In preda alla bulimia del piacere, si sveglia con il desiderio di solcare le acque del lago con il Mas e con l'idrovolante Alcyone. Oppure di saggiare l'ultimo acquisto automobilistico, la Trikappa torpedo, la Lancia Lambda, prima quarta serie, poi settima, e poi ottava. Prende un'infinità di multe per eccesso di velocità - credo abbia battuto due record dell'epoca, di multe e di velocità senza competizione - che manda, beffardo, a Mussolini.

Di ritorno a casa, le idee non aspettano, non è tollerato il riposo. Che si esegua tutto alla perfezione, con la massima urgenza. I messaggi giornalieri per Maroni documentano l'alacrità del mittente, un fiume in piena, una fucina di intuizioni e richieste. Per ottenere ciò che vuole, d'Annunzio non si fa scrupolo di blandire, pregare, perfino supplicare. Ma guai a non dargli subito ciò che vuole. Quando l'umore è nero, il principe esigente ma gentile si trasforma in tiranno spietato: «È necessario obbedire». Si speri che il «cruccio» non si impossessi di lui.

Benché l'architetto viva al Vittoriale, d'Annunzio gli scrive mille e duecento lettere e biglietti. Maroni sta al gioco, blandito o elogiato, redarguito o perseguitato, non batte ciglio, lavora a testa bassa. Il Comandante inventa ogni giorno una magia diversa, l'accostamento imprevedibile, l'addobbo originale, la sistemazione impensabile. Maroni lo segue a passo a passo, scavalcato dall'artefice che vuole istruire personalmente le maestranze, consigliare, correggere. Non se la prende, sa che il Maestro può diventare falegname, giardiniere, disegnatore, fabbro e poco ci manca che prenda lui stesso in mano gli attrezzi del mestiere: «Batto il ferro, soffio il vetro, incido le pietre dure, stampo i legni con un torchietto, colorisco le stoffe, intaglio l'osso e il bosso, sottilizzo i profumi, interpreto i ricettarii». Eppure, Gabriele impone a Maroni di convocare i migliori, i maestri dello scalpello e del legno, dell'oro e della pietra, del bronzo e dell'avorio, del vetro e della ceramica. Al Vittoriale convergono da tutta Italia Cadorin, Canali, Buccellati, Chiesa, Brozzi, Minerbi, Martinuzzi, Marussig e tanti altri, nomi che oggi dicono poco o nulla ai più, ma che all'epoca erano garanzia di arte raffinatissima. Mettono il proprio genio al servizio del Genio, che afferma di voler fare del proprio eremo un regno di «scuole, botteghe e officine per rimemorare e rinnovellare le tradizioni italiane delle arti minori». È mia intenzione aprirle, finalmente, quelle botteghe, proprio dove erano state progettate.

Oltre a realizzare le idee del Comandante, Maroni è suggeritore, contabile, segretario e amministratore. E, dopo la morte del Comandante, nel 1938, toccò proprio a lui proseguirne l'opera e seguirne le volontà. I presidenti del Vittoriale - quindici finora - sono i suoi successori. Lo invidio, Gian Carlo. Lui poteva costruire, e io no, lui poteva parlare con il Comandante, e io no. Consola poco che, dagli anni Ottanta, i presidenti del Vittoriale abbiano il privilegio di poter abitare nella casa che Maroni costruì per sé nel 1929, detta il Casseretto perché lo studio ha la forma del cassero di una nave. Qui, tra queste librerie di legno scuro, Maroni studiava e progettava per la Santa Fabbrica, così chiamavano il Vittoriale, sempre alla ricerca con Gabriele di nuove invenzioni. E di soldi per realizzarle, proprio come me, in questo sono uguale.

Scaramantico come Gabriele, l'architetto ha messo sopra la porta d'ingresso due immense corna di bue e, proprio nel cassero, teneva le sedute spiritiche, cui Gabriele partecipava volentieri. Ancora oggi, ogni tanto, qualcuno che ci entra sente passare degli strani aliti. Spiriti? Credo più che siano gli infissi, mai cambiati. Meglio non perdere il controllo, come lo perse Maroni, che un giorno confidò a Orio Vergani: «Io ho servito d'Annunzio già in altre sette vite... mi sono reincarnato sette volte con lui e sempre l'ho servito. Una volta nel Seicento egli era un Califfo e io il suo scriba. Per punirmi di un piccolo errore ordinò mi venisse tagliata la testa con la scure... ma io sono tornato ogni volta con lui in ogni reincarnazione... ».

Maroni morì nel 1952, a 59 anni. Si dice che l'uccise il dolore di essere stato estromesso dalla carica di sovrintendente del Vittoriale, nel clima di abbattimento di tutto ciò che poteva odorare di fascismo. Certo, soffrì molto per l'espulsione dal suo capolavoro, ma aveva un tumore al fegato. Dopo un lungo ricovero chiese e ottenne di passare gli ultimi giorni al Vittoriale, per morire fra queste mura. Il Casseretto è un po' triste, con poche suggestioni e qualche scomodità: gli acari, forse gli stessi che facevano compagnia all'architetto, sembrano inestirpabili. Ma è perfetto per lo scopo cui l'ho destinato: un Museo Gian Carlo Maroni, per il quale occorre soltanto trovare il denaro. Dopo la morte del Comandante, l'astuto Maroni continuerà a chiedere soldi al duce per migliorie e ampliamenti ordinati - diceva - dal Vate, che gli compariva in apposite sedute spiritiche. Purtroppo non posso presentarmi a nessuna fondazione bancaria o istituzione con la stessa scusa, ma il denaro si troverà, lo so.

*Presidente del Vittoriale

@GBGuerri

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