L'idea di Churchill: eliminare Mussolini senza processo

Documenti d'archivio confermano che Londra nel 1943 s'aspettava il crollo del fascismo. Pensando all'esecuzione sommaria del Duce

L'idea di Churchill: eliminare Mussolini senza processo

A quasi settant’anni di distanza dal 25 luglio 1943, poco si conosce ancora del contesto internazionale che precedette e che seguì la caduta del fascismo. Un cono di luce capace di forare questo banco di nebbia può venire dalla documentazione conservata nei «National Archives» britannici, dalla quale apprendiamo che il collasso del regime di Mussolini era reputato dal governo inglese, già nella primavera del 1943, un’eventualità certa e prossima a verificarsi. Nel promemoria, consegnato ai membri del gabinetto dal ministro degli Esteri Antony Eden, il 24 aprile 1943, si leggeva, infatti, che «la serie di sconfitte dell'Asse in Russia e in Nord Africa e la critica situazione dei suoi eserciti in Tunisia spingevano gli Italiani ad auspicare una rapida vittoria degli Alleati per poter uscire dalla guerra».

Questo sentimento, rafforzato dal timore che una vittoria del Patto d’acciaio avrebbe ridotto l’Italia a un semplice «protettorato del Terzo Reich», non era stato incrinato dalle imponenti incursioni effettuate dalla Raf e dall’Usaaf nelle maggiori città della Penisola, con il loro largo seguito di perdite umane e materiali. Al contrario, la strategia del «bombardamento terroristico», personalmente voluta da Churchill, aveva provocato l’evacuazione di massa dalle aree urbane, l’infarto nella rete delle comunicazioni, la conseguente paralisi dell’approvvigionamento alimentare, acuendo la «stanchezza per la guerra». L’Italia era dunque sull’orlo di un’«automatica disintegrazione» che poteva essere accelerata da «un incremento della resistenza passiva contro la dittatura da parte della popolazione civile».

Quella resistenza sembrava comunque destinata a non tramutarsi in insurrezione, dato che le uniche forze disposte ad attuarla erano costituite dalle «isolate cellule del Partito comunista, attive nelle fabbriche e in alcune università del Nord». Nella stragrande maggioranza, gli Italiani temevano ancora, come nel 1922, la «minaccia bolscevica» e non avrebbero mai fornito il loro concorso a «una rivolta iniziata da forze sovversive». Contro Mussolini e i suoi yes-men potevano però mobilitarsi gli altri centri di potere. Poco affidamento sembrava dare la monarchia rappresentata da Vittorio Emanuele III («un uomo invecchiato, privo di iniziativa, terrorizzato dall’idea che la fine del fascismo avrebbe aperto un periodo di anarchia incontrollabile») e dal suo erede, Umberto, incapace di passare all’azione nonostante le pressioni della consorte, Maria José, che costituiva «l’elemento più energico della coppia reale». Casa Savoia avrebbe appoggiato un rovesciamento del regime, solo in un secondo momento, quando si fosse verificato un pronunciamento dell’esercito provocato dal Maresciallo Badoglio o un colpo di Stato orchestrato da «fascisti opportunisti, come Dino Grandi, da industriali e finanzieri, come il conte Giuseppe Volpi di Misurata che miravano, comunque, a far sopravvivere un fascismo senza Mussolini per salvaguardare i loro personali interessi».

Lo scenario del 25 luglio appariva, in questo documento, già perfettamente delineato con una dovizia e un’esattezza di particolari che non possono essere spiegati dal pure importante afflusso di notizie ricavate dai rapporti della vasta rete spionistica impiantata in Italia già prima del conflitto. Le fonti per la stesura del rapporto Eden erano sicuramente altre. Esse provenivano dalla decrittazione, realizzata dall’intelligence statunitense, della corrispondenza diplomatica degli ambasciatori giapponesi residenti a Roma, Berlino e nei paesi neutrali (Spagna, Turchia, Portogallo, Svizzera, Vaticano), che parlava diffusamente del «declino della volontà di combattere dell’Italia».

Grazie a questi documenti tempestivamente inviati a Londra (ora conservati negli archivi londinesi) il golpe di Palazzo Venezia e il successivo arresto di Mussolini non trovarono impreparato il governo di Sua Maestà. Già il 26 luglio, Churchill era in grado di presentare al «War Cabinet» la prima bozza di un dettagliato piano d’azione (Thoughts of The Fall of Mussolini) per sfruttare le conseguenze dell’ormai inevitabile «resa incondizionata» dell’Italia. Lo sganciamento del nostro Paese dall’alleanza tedesca e il suo conseguente allineamento con Londra e Washington avrebbero consentito di accorciare il cammino verso la vittoria finale. La Mediterranean Fleet sarebbe stata libera di spostarsi nell’Oceano Indiano per fronteggiare il Giappone, fornendo un deciso contributo allo sforzo bellico statunitense. Lo sbarco di un contingente anglo-americano nei Balcani avrebbe provocato il collasso del blocco orientale (Ungheria, Romania, Bulgaria) favorevole a Hitler, con un forte alleggerimento della situazione militare dell’Urss. Infine, la conquista degli aeroporti a nord di Roma avrebbe consentito di sferrare una serie di raid contro la Germania meridionale e centrale, fino a quel momento difficilmente raggiungibile dalle basi inglesi.
All’Italia, divenuta nello spazio di un mattino antifascista e antinazista, Churchill, non intendeva però assegnare un ruolo attivo nel conflitto. Le sue truppe dovevano limitarsi a ostacolare la ritirata della Wehrmacht dalla Penisola e a presidiare i territori occupati per sgomberarli all’arrivo degli Alleati, mentre l’aviazione e le sue navi da battaglia sarebbero state «completamente paralizzate come unità combattenti». Cancellare la potenza marittima dell’Italia, come la Gran Bretagna aveva eliminato quella della Francia di Vichy dopo il luglio 1940, per trasformare il Mediterraneo in un «lago inglese», rientrava negli obiettivi della guerra di Churchill esattamente come l’annientamento del totalitarismo nazista. Di eguale importanza era anche l’eliminazione fisica di Mussolini che, poco dopo lo sbarco in Sicilia, il Maresciallo dell’aria Harris aveva proposto di far fuori con un bombardamento chirurgico «sugli uffici del capo del governo italiano».

Churchill ribadiva ora questa necessità, affermando che le gerarchie fasciste potevano essere imprigionate in attesa di essere processate come «criminali di guerra», senza però minimamente escludere la più sbrigativa soluzione finale di «una loro esecuzione sommaria senza processo» (a prompt execution without trial).

Di quella «licenza di uccidere» si sarebbero servite le bande del Cnl, il 28 aprile 1945, a Dongo, per trasformarsi in servili sicari disposti ad eseguire la sentenza di morte di Mussolini da tempo emanata nell’appartamento di Downing Street, da dove Churchill aveva condotto la sua strenua battaglia per la difesa dell’Impero britannico anche a costo di violare ogni regola del diritto internazionale.
eugeniodirienzo@tiscali.it

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