La Liguria che ha nel cuore Walter, esploratore di cime e valori umani

La Liguria che ha nel cuore Walter, esploratore di cime e valori umani

Era felice, Walter, quando da Dubino, il suo «rifugio» valtellinese dopo tanti anni di giringiro per il mondo, se ne scendeva con Rossana a Chiavari. Felice, certo, come può esserlo uno come lui che, avendo compiuto già quattro volte vent'anni, diceva di averne passate tante «come se, di anni, ne avessi 200». Ma poi aggiungeva subito, ammiccando: «Mi sento un ragazzo, se penso a quello che vorrei ancora fare, e viaggiare, e scoprire». Benedetto uomo, un satanasso! Sempre in cammino, sempre in salita. Come fosse un dovere e una festa. Come fosse un’esigenza, ma anche un’espressione di felicità. Come un ragazzo, appunto.
NEL TIGULLIO Veniva a Chiavari spesso, a trovare i suoi amici del cuore, Mariola e Graziano Zolezzi. A volte «solo» per loro, per una rimpatriata in famiglia dove si sentiva a suo agio, a ricordare e, naturalmente, a fare progetti. Guardando avanti, come faceva da sempre, scalando cime e pareti, attraversando foreste e deserti, sfidando le altezze della Natura e gli abissi delle miserie umane. Ricordo la telefonata che mi fece da lì, da quel focolare intimo e per lui prezioso di Mariola e Graziano, quando ancora portava (e sopportava) le stampelle, residuo di un incidente alle gambe: «Sai - mi disse - fa effetto anche a me guardarmi allo specchio, e vedere Bonatti che si tiene in piedi con le grucce!». E giù una risata esorcizzante. Nel «mito» c’era tanta autoironia, da svelare a chi aveva accesso al suo scrigno interiore. E comunque, quello di casa-Zolezzi, non era l’unico motivo per venire qui, a rinsaldare i legami con la gente dei «monti del mare». C’erano le serate con gli alpinisti, le proiezioni con vecchie diapositive, colori sbiaditi, e lui che parlava a braccio: «Il Petit Dru, il pendolo per tirarmi fuori dai guai, quando pensavo di non farcela più. Però non volevo arrendermi. Mai». Una lezione per tutti, anche di chi arrampica ogni giorno nella vita, in officina, dietro il banco, alla scrivania, e ha una propria vetta, ogni giorno davanti, da scalare con dignità.
Faceva sempre il pienone di spettatori. Niente da spartire con le immagini in 3D, la dissolvenza incrociata. Nemmeno c’era la musica di sottofondo: solo, «solo», quella voce bene impostata, che quando spiegava i «giorni grandi» un poco si incrinava, per poi riprendere subito vigore. Grand Capucin, Grandes Jorasses, la Poire e, via via, la Sentinella Rossa, il Pilone Centrale di Freney e la Nord del Cervino. E quel magnifico bastardo del K2, quel tanto amato e odiato K2, dove... No, bastardo no, odiato no: mai Walter ha odiato la Montagna, quella che credi sempre di conquistare e che invece è lei che ti conquista. No, l’odio è quello degli uomini, dei compagni di cordata. Che credevi legati alla stessa corda e invece... Raccontava questo al Teatro Cantero, ai chiavaresi, ai liguri che pure sono nati al mare e hanno quella strana voglia di montagna. Come se fosse una contraddizione!
I LEGAMI Ecco: Walter Bonatti e Genova, lui e la Liguria. Un rapporto, un legame stretto, intenso, forse anche poco conosciuto, al di là dei luoghi comuni e di quanto farebbe pensare la presunta dicotomia mare-alpe. D’altronde, proprio a proposito del K2: quanti sanno che la spedizione italiana del 1954 al secondo «ottomila» della Terra è partita in nave da Genova e vi ha fatto ritorno? E che il 12 ottobre dello stesso anno, a Palazzo Tursi, il capospedizione, lo scienziato Ardito Desio, diede l’annuncio ufficiale che a raggiungere la vetta erano stati Achille Compagnoni e Lino Lacedelli? «Togliendo il vincolo del segreto», come ricorda Gino Dellacasa, ex assessore e valente alpinista genovese, che sul K2 ha allestito una mostra nella Sala delle grida della ex Borsa valori a cinquant’anni dalla «conquista» italiana. Aggiunge Dellacasa: «Alla squadra di alpinisti fu conferita la Caravella d’oro del Premio colombiano dello sport da parte del sindaco Vittorio Pertusio. E alla sera, in piazza della Vittoria, venne consegnata una medaglia d’oro a ogni componente della spedizione, fra cui il bocia, l’allora ventiquattrenne, già fortissimo Bonatti».
LA VERITÀ NEGATA Ore liete, ma che non potevano far dimenticare la notte da tregenda, il bivacco a 8mila metri, in piena «zona della morte», per trasportare le bombole di ossigeno a Compagnoni e Lacedelli e scoprire che, loro, non erano al punto convenuto, e sentire una voce, di uno di loro, che dice: «Lascia tutto lì e torna indietro». Come se fosse facile tornare indietro a notte fonda, sotto la bufera, senza ossigeno a quella quota, mentre il «compagno di viaggio» l’hunza Mahdi, è in preda al delirio e ai congelamenti! C’è voluto un ligure, più di mezzo secolo dopo, per fare giustizia. Un altro grande amico, il savonese Annibale Salsa, antropologo insigne, docente universitario e già presidente nazionale del Club Alpino Italiano. Ha messo insieme una commissione di tre saggi, Luigi Zanzi, Alberto Monticone e lo scrittore-alpinista Fosco Maraini: che studiassero loro i documenti originali e dicessero una buona volta se quel cocciuto, quel rompiscatole di Bonatti aveva ragione a dire che «lassù, quella notte, io dovevo morire», che «non è vero che ho portato le bombole di ossigeno vuote perché ero io che volevo salire per primo in vetta». Fino all’accusa che schianta l’animo di roccia che ormai s’è trasformato in ghiaccio: «Bonatti ha pagato per essere lui il numero uno in vetta». Accuse infamanti, calunnie. Durate più di cinquant’anni, anche contro l’evidenza. Fino alle conclusioni dei tre saggi: Walter ha rischiato la vita per far vincere i due alpinisti, l’«occidentalista» Compagnoni e l’«orientalista» Lacedelli - par condicio o bipartisan si direbbe oggi? - i quali furono designati fin dall’inizio dal «generalissimo» Desio.
CONTROCORRENTE Al ligure Salsa, all’amico Salsa, Bonatti diede pubblico atto: soprattutto d’aver avuto coraggio, di aver sfidato anche lui, e Zanzi, Monticone e Maraini, le ipocrisie, le convenzioni, le insinuazioni, le menzogne. Ne parlò in una delle ultime apparizioni in tv, nel salotto di Fabio Fazio, un altro ligure, tanto per cambiare. E citò Salsa, che era in sala, come si può e si deve (si dovrebbe) citare un compagno di cordata che condivide con te la più bella delle ascensioni. Eppure molti, anche dalle nostre parti, continuavano a dire: «Ma perché non la smette, Walter, di rimuginare sempre la stessa storia? Che vuoi che gliene importi alla gente di quello che è successo, allora, sul K2?». Alla gente forse no, a uno come Walter sì, e tanto. A uno come lui che, per dimenticare, non gli bastavano la solitaria del Dru o la direttissima sulla Grande Becca, né il faccia a faccia con i varani di Komodo e gli ultimi pigmei, la discesa nel vulcano e la risalita dello Yukon. Eppure, un giorno, gli bastò entrare in una tenda di indigeni, in una selva a mille miglia da casa, e trovarci appese le pagine di «Epoca» con il reportage delle sue imprese. Gli bastò per scordare un attimo, e commuoversi. Il solito ragazzo.
IL COMUNICATORE Eccolo, Walter, al Teatro Verdi di Sestri Ponente, in una serata del novembre 1989, quando gli organizzatori avevano chiamato me perché introducessi «l’ospite d’onore». Mai conosciuto prima, ma sapevo quasi tutto di lui. Citò - come fosse chissà che cosa - un mio pezzullino scritto per l’occasione per il catalogo dell’iniziativa. Titolo: «Walter Bonatti, un grande comunicatore di valori umani». E pensare che non avevo neanche parlato di lui come alpinista! O forse era proprio per questo che gli andava bene. Mi ritrovai lo stesso testo, parola per parola, quindici anni dopo, pubblicato nel suo libro «Una vita così».
Sì, la Liguria, in qualche modo, gli era rimasta nel cuore. Sentimento reciproco. E non è un caso che adesso si venga a sapere che Walter ha condiviso con Rossana, la compagna - l’Amore - di una vita, la decisione di riposare per sempre a Porto Venere. Non in montagna, non in una di quelle terre selvagge che ha percorso in lungo e in largo, che ha visitato, che ha descritto, che ha temuto e rispettato. No. Ha scelto la Liguria, Porto Venere, davanti al mare. Lì, nel piccolo cimitero sopra la grotta Byron, c’è la tomba di famiglia Podestà. Ma lui deve averci inteso qualcos’altro di più e di diverso. L’ha colto e se l’è portato via con sé, ben custodito nello scrigno interiore di cui Rossana, e forse Annibale, Graziano, Mariola e pochi altri possiedono la chiave.


IN VETTA Benedetto Walter, sempre il solito satanasso! Anche partendo per quest’altro Viaggio, ti costringe a riflettere: su un uomo pieno di cose da raccontare, limpide come l'aria sottile di montagne altissime dove da qualche giorno ha ripreso a arrampicare.

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