E così domenica Silvio Berlusconi avrebbe compiuto l'ennesima cattiva azione. Avrebbe violato le regole del giornalismo all'americana.
Strano Paese il nostro: la campagna elettorale invece di consentire un libero confronto tra le idee dei candidati, dando a ciascuno l'opportunità di acquisire spazi per esporre il proprio pensiero, regolamenta e sminuzza tutto fino all'ultimo centimetro quadrato: tabelloni, trasmissioni, interviste, confronti. Tutto viene trangugiato, insalivato in modo che all'elettore non possa arrivare nessun messaggio forte: a meno di non controllare - s'intende - gli unici media liberi, la cosiddetta stampa indipendente e le mitiche organizzazioni di massa. Tutto è regolamentato, a partire da quella limacciosa legge che è la par condicio. Tutto, naturalmente - come si scriveva - tranne gli editoriali dei giornali dell'estenuato establishment italiano, proteso a difendere fino all'ultima raffica il suo malandato potere. E tutto tranne uno spazietto, la trasmissione di Lucia Annunziata, che mentre legami, vincoli, regolamenti impediscono a Berlusconi di fare una libera campagna elettorale, lì invece, lei, la giornalista alla Washington Post, può strapazzare il presidente del Consiglio a piacimento, senza lasciargli la possibilità di dire quello che pensa, arrivando persino a un certo punto alla pretesa d'impedirgli di andarsene.
Da un certo punto di vista l'Annunziata fa persino simpatia: arruffata nello sforzo di fare la giornalista a stelle e strisce. Per qualche verso appare più interessante di tanti giornalisti «de sinistra» con linguaggi di legno a recitare formulette politiche. La sua idea, però, che mentre tutti sono legati, lei sia libera di fare ciò che vuole non nasconde solo una dose d'ingenuità ma anche una protervia di fondo. Nella sostanza non dissimile da quella dei Letterman o i Dan Rather de noantri, degli anchorman tipo Enzo Biagi, Michele Santoro, Daniele Luttazzi che consideravano il massimo della libertà linciare via tv quello che era allora il capo dell'opposizione: e per di più lo facevano d'intesa con il presidente ulivista della Rai.
Satira senza freni, interviste senza regole, trasmissioni scatenate sono anche il modo di funzionare di una società americana che lascia però la libertà a tutti di fare sul serio le proprie campagne elettorali, di fare le contro satire e così via. Una società in cui la competizione è consistente anche tra le grandi testate giornalistiche nazionali e non viene invocata solo per i taxisti: una società in cui i grandi quotidiani si sfidano non fanno i concertini delle notizie. In cui i sindacati dei giornalisti fanno i sindacati non i soviet. Non è una cattiva idea, quella dell'Annunziata, di battersi per arrivare a una simile società libera e aperta. La nostra giornalista all'americana dovrebbe, però, avere le idee più chiare sul percorso che è necessario intraprendere. Su qual è la via da imboccare per liberarsi dal limaccioso conformismo nazionale, che non chiameremo mai regime per non offendere le vittime di quelli veri del sanguinoso Novecento. L'«americanismo in una trasmissione sola» auspicato dall'Annunziata, non solo non è il modo per arrivare a questa società più libera e aperta. Diventa anzi uno dei tanti strumenti che l'ampio schieramento dei politicamente corretti usa per tenere la nostra società nella palude.
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