La lirica stringe la cinghia, le sue star invece no

In tempi di crisi la musica colta cerca di far quadrare i conti e in tutto il mondo i teatri invitano gli artisti di grido a ridursi i cachet. Ma grandi cantanti, solisti e direttori, che pretendono fino a 80mila euro a serata, non ci sentono

La lirica stringe la cinghia, le sue star invece no

In tempi di recessione, la musica cosiddetta colta soffre tremendamente. La crisi ha scoperto i nervi di un genere non propriamente duplicatore di denaro come l’opera lirica, prodotto squisitamente italiano, coltivato ed esportato in tutto il mondo. Si tira la cinghia nei teatri d’opera, e non se la passano meglio le istituzioni sinfoniche e cameristiche. Secondo quanto avviene su scala mondiale, con gli Usa in testa, la programmazione s’assottiglia, gli organizzatori chiedono clemenza agli artisti perché riducano la parcella, si rinuncia al nome d’oro, e si punta - finalmente! - su giovani e cachet sotto controllo. Si taglia, si fanno i conti della serva. Però gli ingaggi delle star della musica non conoscono flessioni. I compensi da nababbi, conquistati negli anni ruggenti, continuano a volare alto. Con gli intoccabili della musica non si tratta, a tutti gli altri si chiede un generale sconto, in genere del 20% ci assicura Maurizio Scardovi, agente. Lo stipendio impiegatizio dell’orchestrale medio si confronta con quello dorato delle star che non muovono neppure un dito e scaldano l’ugola per meno di 40/50 mila euro a prestazione. Nella top ten globale dei musicisti più quotati, e pure pagati, spicca il pianista italiano di punta, ma anche concertisti rampanti d’ultima generazione tra cui Lang Lang. Già, il Lang Lang cresciuto a pane e pianoforte, in un appartamentino di Pechino dove i servizi igienici venivano condivisi con altre quattro famiglie. Ora è una gloria nazionale dalle quote in inarrestabile ascesa: fortunate le istituzioni che lo strinsero a sé al suo esordio, con contratti pluriennali, perché ora vale quattro volte tanto. Quanto ai violinisti, la palma dei più costosi va a Anne-Sophie Mutter e Itzhak Perlman. Poi bisogna fare distinguo fra gli strumenti. A parte il violoncellista Mstislav Rostropovich, che - al di là dei molti concerti per beneficenza - imbracciava il suo Stradivari dietro onorari astronomici, i concertisti più costosetti sono i pianisti e i violinisti. Così come si riconosce una gerarchia nell’Olimpo delle voci per cui le più acute, quella del soprano e del tenore, hanno un peso economico maggiore. Una mezza spanna sotto questa dozzina di punte massime, c’è il largo ventaglio di ottimi concertisti, pure fuoriclasse, la cui prestazione viene valutata al massimo 20mila euro.

La categoria che però fa sbiadire tutte le altre è quella del direttore d’orchestra. Ha sempre guidato la classifica delle più costose bacchette l’inossidabile Lorin Maazel. Ora, però, sta per essere scalzato da James Levine il quale dirige in contemporanea la Boston Symphony e il Met di New York portandosi a casa 3 milioni e mezzo di dollari l’anno, ai quali si aggiungono i proventi dei concerti extra. I direttori di grido, per eventi particolari, possono raggiungere le vette degli 80mila euro a serata.

Ma la casistica è ampia e sfaccettata, in particolare durante la crisi. «Il rovescio della medaglia di questi tempi, è che se conosci bene il mercato puoi fare acquisti interessanti. Noi siamo riusciti ad ospitare orchestre di lusso, con direttori notoriamente poco economici, a costi ridotti. Del resto, siamo un ente privato e i conti si fanno con minuzia», spiega Pier Carlo Orizio, direttore artistico del Festival Pianistico Internazionale di Brescia e Bergamo. E comunque, una cosa è la classica stagione, l’altra è l’evento singolo, magari sorretto da un generoso sponsor, l’altra ancora è la manifestazione estiva gestita da un’unica agenzia d'artisti che riesce ad assicurarsi presenze dai costi stellari ma una volta tanto, per gentile concessione, contenuti. Il caso del Festival di Cortona che riesce ad attrarre in Italia artisti (da Angela Gheorghiu a Cecilia Bartoli) ed attori di grido (da Robert Redford a Anthony Hokpins) in virtù dei legami d’amicizia o lunga collaborazione coltivati dal patron del Festival. Che coglie l’opportunità di mostrare all’Italia questa sua merce rara, dagli onorari proibitivi, ingolosendo i teatri (ormai all’asciutto). Ognuno paghi i cachet che vuole, ma non con i soldi pubblici è il monito di Salvatore Nastasi, direttore generale per lo spettacolo dal vivo, capo gabinetto del ministero per i Beni culturali e commissario del San Carlo di Napoli, teatro che sta portando fuori dal tunnel. I teatri e le istituzioni sovvenzionate dallo Stato, per decreto, devono attenersi a «un tetto massimo di compenso per artista, ora intorno ai 20mila euro a prestazione», dice Nastasi.
Ma siamo sicuri che non vi siano le strategie per aggirare questo calmiere soddisfacendo i desiderata dell’artista? Prassi che i bene informati ritengono essere non propriamente disattesa. Se così fosse, «gli amministratori dovrebbero risponderne legalmente. Quando mi sono trovato a collaborare con artisti del calibro di Abbado e Muti, che potrebbero anche avanzare certe pretese, abbiamo rispettato la regola», ancora Nastasi.

Giampaolo Vianello, sovrintendente del teatro la Fenice di Venezia, si attiene a un suo cachettario così stabilito: «Per ogni recita mi pongo un budget massimo che confeziono sulla base del numero di artisti primari e comprimari, i compensi di questi ultimi sono pari al 40% di quelli dei cantanti protagonisti», dice. Osservazione che offre un’idea dello scarto che si crea fra chi sta in cima o anche solo appena al di sotto della scala di valore artistico e di conseguenza finanziario.

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