Uno che sfugge alla sintesi è difficile da ricordare in modo inedito. Se poi l«eredità» (parola che probabilmente non avrebbe mai usato, neppure sotto tortura) non è lasciata nei libri, perché ne ha scritti pochissimi, ed è invece affidata al ricordo di colleghi o al lavoro sommerso di talent-scout, la situazione si complica ancora di più.
Stando a ciò che diceva, la motivazione della propria ipotrofia narrativa era semplice e lapidaria: «Se vuoi raccontare qualcosa di organico, devi piegarti ogni tanto al banale. Perfino Tolstoj deve dire a un certo punto che Anna Karenina si alzò e andò ad appoggiarsi la fronte ai vetri della finestra. Ecco, io non sarò mai capace di seguire unAnna Karenina in un movimento così ovvio e usuale. Che me ne frega, a me, che quella brava signora vada alla finestra? Anche la mia serva ogni tanto ci va. Eppoi si dimentica di lavare i vetri. Eppure, se vuoi scrivere un romanzo, devi rassegnarti a seguirne i personaggi anche in queste faccenduole private. E io non mi ci rassegno». Ecco spiegata la motivazione dei (pochi) libri e dei (molti) articoli non firmati.
Ma in questo caso il libro cè, ed è una favola, che forse sarebbe meglio chiamare storia. Ha per protagonista un generale, ribattezzato «Stivalone» per le sue vicissitudini con calzature e stivaletti vari, come scenario una guerra e come avversari un esercito di soldati in grisaglia gialla e rossa. Ed è scritta soprattutto da uno che di nome faceva Leo Longanesi, «disegnatore, scrittore ed editore, nato a Bagnacavallo nel 1905 e morto a Milano cinquantadue anni dopo», come recita ogni enciclopedia.
Il Generale Stivalone (pagg. 60, euro 24), pubblicato per i tipi della casa editrice fondata dal suo autore e che ancora oggi porta il suo nome, è una favola in ventidue tavole «rimasta incompiuta ed inedita fra le sue carte». Almeno così ci dice Paola Mastrocola nellintroduzione al libro, che sarà disponibile da oggi. Ma in realtà, se lo si guarda in controluce quasi fosse un negativo fotografico, le tracce per definirlo compiuto ci sono tutte. Cè, innanzitutto, il tratto di matita inconfondibile, ed è lo stesso tratto che ritroviamo nelle copertine e nelle pagine dellItaliano, di Omnibus, del Borghese e di buona parte dei suoi libri, uno su tutti Una vita. Cè la sua tipica grafia, che è poi quella ordinata e leggibile delle nostre nonne, accompagnata dal colore (acquerello) che lautore di Bagnacavallo usava spesso. E cè soprattutto la storia, che è proprio una storia alla Longanesi.
Perché, oltre allintuizione, dentro a questa favola ci sono tutti quei valori di cui voleva essere il testimone, o se vogliamo laedo. Primo fra tutti il senso del dovere e il rispetto degli obblighi e della gerarchia: il generale che pur di partire subito per la guerra è «costretto a infilare lo stivalone rotto» è la riprova delladempimento dei doveri di un buon soldato e quindi di un buon cittadino. Poi, la bordata alle «idee moderne», che spinge il protagonista a una scelta probabilmente discutibile: comprare la spada persa in battaglia e cedere così a pulsioni consumistiche. E cè anche laccortezza nel salvaguardare gli oggetti, specie se preziosi: una volta acquistata larma, il nostro protagonista «la mise sul suo letto e vi dormì sotto, per molti mesi». Ma cè soprattutto il finale aperto. Lultima pagina della favola è infatti bianca: al ritratto di un soldato che sta per addormentarsi fa da corredo la stessa grafia di Longanesi che suggerisce: «finché un giorno... e qui vostra madre continua...».
Cè, in poche parole, linvito, o se preferite il garbato imperativo, a riscoprire il piacere della lettura e della fantasia e a trasmetterlo alle nuove generazioni. Ma questinvito - ed è qui che si nota il tratto inconfondibile di Longanesi - non è fatto ex cathedra e non risente del timbro sussiegoso e professorale.
Tuttavia, il finale aperto lascia spazio a unamara conclusione. La società, e in particolare la borghesia, che lo scrittore evoca, di certo oggi non cè più. Il problema è che si era già smarrita (o era comunque in ritirata) quando Longanesi era ancora vivo. Una società da secolo XIX, frequentata in punta di piedi dalle «vecchie zie» e più vicina ai padri della patria e alla Destra storica che allItalia delle due guerre e degli anni Cinquanta. E la conclusione potrebbe essere ancora più amara.
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