Cè uno spettro che si aggira per l'Italia ma al contrario di quello del comunismo evocato da Karl Marx nell'800, non spaventa nessuno. Chi s'imbatte in questo spettro (il Manifesto del partito democratico) ha un'unica reazione: un'intensa noia. Un disperato Stefano Menchini, direttore di Europa, quotidiano della Margherita, ha confessato che il Manifesto non lo fila nessuno. Se ne tratta solo nelle ultime pagine dei giornali. Edmondo Berselli, che pure nei momenti del bisogno non manca di officiare qualche funzione prodiana, su Repubblica scantona. L'unico a far del rumore è Stefano Ceccanti, che nota come l'acuirsi dell'iniziativa della Conferenza episcopale italiana sui Dico coincida con la pubblicazione del Manifesto: post hoc ergo propter hoc.
La posizione dei vescovi viene dopo il Manifesto dunque ne è causata. Logica da quattro soldi che vuole diminuire i seri interrogativi morali di Camillo Ruini a politicantismo. L'unico intervento di respiro è di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera: d'altra parte tra i quindici saggi che hanno scritto il Manifesto c'è anche Michele Salvati, intellettuale decisivo nel reggere la linea più o meno criticamente filo centrosinistra del Corriere. Giavazzi è generoso di riconoscimenti per l'accettazione della cultura del merito e della concorrenza nel Manifesto, ma muove un'obiezione dirimente: dove stanno appesi tutti questi buoni propositi? È il quesito di fondo per un documento che dovrebbe battezzare il nuovo partito: che analisi storica c'è, che lettura dei processi concreti? Si parla di Europa come orizzonte ma senza riflessione sul perché in due Paesi da sempre ultraeuropeisti, Francia e Olanda, il referendum sulla Costituzione è stato bocciato.
Si sceglie la Costituzione italiana come cornice della politica del Partito democratico, ma non si spiega come proprio la Costituzione del 1947 abbia portato alla crisi devastante del 1992 che ha liquidato i partiti architrave del sistema. Si dice di volere superare i partiti fondati su «religione» e «classe» e non si osa citare con il loro nome quella che costituisce parte decisiva della nuova avventura, l'esperienza della sinistra Dc e del Pci. L'Islam è citato una sola volta. La Cina è un'opportunità. Della Russia non si parla. Non vengono nominate Cgil, Cisl, Uil. Si parla di «religione» non di cattolicesimo e tanto meno di Chiesa. Si trova di tutto nel documento ma non esiste il termine «banche», pur elemento centrale dell'economia nazionale e fondamentale nel blocco di potere del centrosinistra.
Si avanzano astratte proposte sulle proprietà dei giornali ma non si ringrazia quegli stessi giornali, condizionati da impure proprietà, per avere propiziato la vittoria del centrosinistra.
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