L'ultima sentenza politicamente corretta: scrutini vietati agli insegnati di religione

Loro credono che il passato non si ripeta solo perché hanno la memoria corta e perché il passato riverbera nella loro mente con le note generiche e orribili ma in fondo rassicuranti di un fumetto. È comodo immaginare Hitler, Stalin come altrettanti fantocci, emblemi di un Male che, grazie a dio (con la minuscola), è destinato a non mostrarsi mai più sulla faccia della terra.

E dimenticano così che anche allora le cose avvennero in modo molto più sfumato, e che per esempio in Germania alle carneficine si arrivò solo dopo diverso tempo, dopo un lungo iter svoltosi quasi completamente - a parte qualche ragazzata - nel segno e nel rispetto della legalità. Prima delle stragi, prima dei macelli vennero le discriminazioni, e prima delle discriminazioni vennero i distinguo, i cavilli, i «se», i «ma», i «però».

La storia insegna che l’orrore ha sempre inizio con le distinzioni e con le discriminazioni. La nostra società non trucida preti e missionari: non perché ami i preti e i missionari (anzi) ma perché è diventata schizzinosa di fronte al sangue, così come lo è di fronte al dolore e alla morte.

Oggi ci sentiamo al sicuro dalle antiche tragedie. Però se si tratta di escludere gli insegnanti di religione dalle commissioni d’esame in quanto «di parte» e di non considerare la frequenza alle lezioni di religione valide per ottenere crediti formativi, allora le discriminazioni scattano. Con la differenza che una coltre di nebbia cala sopra gli occhi (gli dèi confondono infatti quelli che vogliono perdere) e impedisce di guardare la tenebra che si avvicina.

Un credito, come tutti sanno, a scuola non si nega pressoché a nessuno. Il basket, la danza classica, la chitarra jazz, i corsi di cucito & filato, quelli di scrittura o di cucina creativa, quelli per sommozzatori, e scommetto anche quelli di yoga, perfino quello tantrico, possono ottenere crediti. Tutto, meno la religione cattolica. Allestire un presepe a scuola è offensivo nei confronti delle altre religioni, e questo anche quando alle altre religioni la cosa non reca il minimo disturbo. Il fatto è che chi decide se una cosa è offensiva o meno non sono i potenziali offesi, ma una mentalità che esisteva ben prima che quei potenziali offesi si facessero vivi sulla scena delle nostre città.

Posso ammettere che spesso gli insegnanti di religione insegnano tutto fuorché la religione, e che in molte occasioni i primi ad essere d’accordo con la sentenza del Tar sono proprio loro, che sciorinano i loro discorsi fatti un po’ di sociologia un po’ di psicologia un po’ di antropologia e un po’ di sentimento a buon mercato, discorsi così politicamente corretti, così attenti a non offendere nessuno, che alla fine non dicono assolutamente nulla. A chi capitano insegnanti così bisognerebbe raddoppiare il credito per la pazienza che hanno avuto nel sopportare tante chiacchiere.

Ma, a parte le amenità, è evidente che questa discriminazione ha radici profonde e non è necessario invocare la miseria dei tempi che corrono per spiegarla. Gli uomini hanno sempre cercato di difendersi dalla verità, e il relativismo è la forma che questa autodifesa ha assunto nella nostra società. Ma il relativismo è violento per natura, e per affermarsi deve sopprimere qualcuno: per l’esattezza chi contesta il relativismo. Il grande nemico del relativismo fu Gesù Cristo, e chi occupa una cattedra di religione, per quanto cerchi di annacquare il proprio messaggio, in qualche modo Lo rappresenta. È uno dei casi, nemmeno tanto rari, in cui a fare il monaco è proprio l’abito, che spesso dice molte più cose di quante ne dica il monaco.

È difficile, almeno per me, stabilire se le discriminazioni siano una causa oppure un effetto dello svuotamento della res publica. I due fenomeni vanno di pari passo. Se il mio avversario non è più disposto a morire affinché io possa esprimere le mie opinioni (ed esprimerle significa anche farle valere come crediti formativi, accanto al volley e ai corsi di pasticceria, altrimenti la libertà di opinione è una frottola), allora la democrazia è in pericolo, e la questione dei rapporti istituzionali (che so, quelli tra governo e parlamento) diventa una falsa questione, perché quello che si perde è la voglia di noi cittadini di mantenerla in vita - perché mantenere in vita la democrazia costa fatica.

Quando manca la voglia di mantenere in vita la cosa pubblica, subito nascono i distinguo, le difese

del proprio orticello, le pubbliche accuse, le discriminazioni, il falso rispetto di tutti, e trionfano quelli che Leonardo Sciascia chiamava «i moralisti di nessuna morale». Dopodiché, almeno in passato, veniva il sangue.

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