Luciano Gulli
nostro inviato a Baalbek
Non c'è poi questa gran differenza, tra il camice (che una volta dev'essere stato bianco) e il colore delle guance di Yassin, infermiere di notte all'ospedale Dar Al Aqba, quattro anonimi piani di cemento alla periferia ovest della città. Sono già passate almeno otto ore da quando ha visto i diavoli in faccia, così, a tu per tu. Ma il sangue non gli è ancora rifluito al volto. «Prima, il fracasso degli elicotteri, due, atterrati ai lati dell'ospedale, e quel rumore di gente che correva nell'atrio. Poi li ho visti, e ho pensato che sarei morto. Una paura che mi resterà addosso per tutta la vita», confessa ai cronisti il mite Yassin, un omino baffuto di una trentina d'anni. «Uno, con la faccia pitturata che sembrava un cane nero, mi ha puntato la canna del suo M 16 alla fronte. Stai giù, mi ha detto in arabo. Gli altri, almeno una cinquantina, si sono sparpagliati per i vari piani, come se conoscessero ogni corridoio e ogni stanza. Ma non c'era nessuno, nei reparti. L'ospedale è troppo esposto, e dopo i bombardamenti del 24 luglio i malati erano stati trasferiti altrove».
Sarà la paura, saranno i «consigli» che qualcuno deve avergli dato, in attesa delle telecamere; sta di fatto che Yassin non la racconta giusta. Un malato, all'ospedale, c'era, dicono altre fonti. Il suo nome, bisbigliano al mercato due agenti della polizia libanese, è Mohammed Yazbek, capo dell'ufficio politico di Hezbollah, ricoverato da qualche giorno per ferite d'arma da fuoco. Ed è con lui che i diavoli neri se ne sono andati. Ne cercavano un altro, tale Hassan Nasrallah, nome e cognome identici a quelli che figurano sulla carta d'identità del grande turbante nero, il capo di Hezbollah. Quest'altro Hassan invece fa il piastrellista, e due giorni fa aveva avuto un problema renale, forse delle coliche, e si era ricoverato. Ma poi era stato dimesso. I diavoli neri sono andati a prenderlo a casa sua, e se lo sono portato via insieme con altri quattro uomini. Elementi di spicco dell'organizzazione terroristica, dicono a Tel Aviv. Ma va là, ribattono dalla direzione strategica di Hezbollah: cinque poveracci che non c'entrano niente, e se volete vi diamo anche i nomi: Hassan Nasrallah, Bilal Hassan Nasrallah, Ahmad Auta, Hassan Burji e Hussein Chokr. «L'operazione è stata un fiasco», gongola dagli schermi di Al Manar l'organizzazione dello sceicco. «Hanno preso il Nasrallah sbagliato...». Ma secondo i media israeliani i parà non cercavano soltanto hezbollah, ma anche i soldati rapiti. Che però lì non cerano.
Un blitz notturno. Un'operazione di commandos arrivati dal cielo, come quella ormai entrata nel mito di Entebbe, in Uganda, trentanni fa. Un blitz come se ne vedono nei film di guerra americani, con le facce degli incursori dipinte di nero e le corte baionette brunite, perché non rimandino bagliori inopportuni. Duecento incursori israeliani a bordo di elicotteri da combattimento, neri come corvi, che si dividono in due stormi. Obiettivo: l'ospedale e un'abitazione di Baalbek, la città del dio Baal, oggi roccaforte di Hezbollah nella valle della Bekaa, 85 chilometri a nord est di Beirut. Prima un bombardamento manicomiale, per preparare il terreno. Poi l'operazione a terra, guidata dal colonnello Nitsan Aloni, uno degli specialisti del Sayeret Matkal, gli stessi di Entebbe. Perché si sappia che non c'è angolo del Libano in cui i soldati di Tsahal non possono arrivare, se vogliono.
«Le facce nere sono uscite da quell'inferno di bombe», conferma Yassin, l'infermiere. Qui non mente, l'uomo. Basta guardarsi intorno, filare tra le macerie vecchie e nuove verso Jamaylieh, villaggio alle porte della città, per capire che razza di nottata dev'essere stata. Palazzine sventrate, un supermercato con le saracinesche sul marciapiede di fronte, tracce di sangue davanti alla bottega di un barbiere.
I morti tra i civili sono almeno 19, annuncia la polizia. «Sette - dice un miliziano armato di mitra che ai giornalisti chiede nome, cognome, data di nascita e numero di telefono, per la vostra sicurezza" - li abbiamo trovati nel cortile di Awad Jamaleddin. Con lui c'erano suo figlio Hussein, che aveva 18 anni, quattro suoi nipoti e un altro parente. In un campo vicino, i cadaveri di altri cinque martiri: Maha Shaabanz al Issa, che aveva 40 anni, e i suoi cinque figli, ragazzi fra i 3 e i 17 anni. Il marito e altri due figli sono feriti gravi. Tutti colpiti da armi automatiche, niente bombe. Li hanno ammazzati quelli degli elicotteri».
La guerra va avanti, dicono da Gerusalemme.
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