L'urlo di Zucchero

Con Elisa e i Negramaro, diventa talent scout per il Cornetto FreeMusic. "Nessuno fa qualcosa per i giovani. Sanremo e Castrocaro? Inutili"

L'urlo di Zucchero

Roma - Tanto poi lui c'è. È vero, Zucchero è irascibile, Zucchero non le manda a dire, ma poi è uno dei pochi a ricordarsi dov'era e quanta fatica ha fatto per arrivare dov'è. Perciò stavolta da Graz ha volato fino a Roma per annunciare che, prima del suo concerto di venerdì a Milano, suonerà uno dei vincitori del Cornetto FreeMusic Audition, un ragazzotto di Lecce che si candida, chissà, a fare la rockstar del futuro. Diciamolo: sarà pure sponsorizzato, Zucchero, però complimenti. La discografia è in rianimazione creativa e finanziaria, e quindi ben vengano artisti come lui (ed Elisa e i Negramaro, in altri concerti) che fanno le veci dei manager e cercano nuovi talenti nascosti dall'indifferenza. D'altronde i cantanti sono di due tipi: quelli costruiti e quelli che si sono fatti da soli, sfruttando tutto lo sfruttabile, gomiti compresi. Vero Zucchero? «A me hanno detto di no per otto anni prima di mettermi sotto contratto».
Perciò adesso fa il talent scout.
«Avrei voluto già farlo nel mio sito qualche anno fa: invitare i musicisti a mandare i loro brani. Ma poi il progetto è tramontato perché non avevo tempo di ascoltare tutto il materiale».
Avrebbe potuto delegare.
«No, il talent scout deve essere quello giusto, è inutile cercare un nuovo Zucchero o una nuova Pausini come fanno oggi. E se poi ad ascoltare i nuovi artisti sono quelli della commissione del Festival di Sanremo siamo proprio rovinati».
Altrimenti ci sono show televisivi come American Idol oppure Operazione Trionfo.
«Ma lì rischia di vincere il più bello e non è detto che sia anche il più bravo. Di solito quelli bravi sono brutti, come me».
Infatti lei non è stato scoperto dalla tivù.
«Quand'ero un ragazzino, avrei pagato oro per suonare tre mie canzoni prima del concerto dei Nomadi».
Invece niente.
«Una volta mi sono avvicinato ad Augusto Daolio, il mitico cantante dei Nomadi. Lui mi offrì una delle sue Muratti, poi gli chiesi: come si fa a fare un disco? Propose di fissarmi un appuntamento con il suo discografico, qui a Roma».
Lei ci andò di corsa.
«Arrivai alla stazione Termini e, visto che non c'avevo una lira, me la feci a piedi fino all'Eur. Faceva caldissimo, ci arrivai stremato. Quando il discografico capì che avevo registrato dodici canzoni, e non solo una, mi disse: ti chiamerò io. Non l'ho mai più sentito».
La solita trafila.
«Poi l'ho ritrovato anni dopo alla Polygram e mi ricordo che, scherzando, gli chiesi almeno di restituirmi il nastro che gli avevo portato quel giorno».
Facile riderci su adesso.
«In realtà io ho fatto del mio meglio anche per i giovani. Quando ho capito quanto valeva Bocelli, dopo il concerto di Bassano del Grappa ho chiuso Caterina Caselli in un camerino e le ho detto: “Adesso a questo qui bisogna far incidere un disco”».
Ora però sono anni che i giovani talenti rimangono nell'ombra.
«L'unica soluzione è quella del “cane da tartufo”: andarli a cercare nelle balere, in provincia. Lì ci sono».
E allora Castrocaro o Sanremo che cosa servono?
«Lì manca il coraggio di osare. Quando si rischia si ottiene qualcosa, altrimenti niente».


E le radio?
«Brave quelle. Non trasmettono i brani degli esordienti finché non sono famosi. Ma come fanno a diventare famosi se le radio non li trasmettono? È un circolo vizioso, qualcuno mi spieghi come venirne fuori».

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