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Maazel: il mio Grande Fratello alla Scala

Il 2 maggio dirigerà l’opera «1984» tratta dal romanzo di Orwell. «Piace molto ai giovani»

da Luogo

Lorin Maazel è un fuoriclasse della musica, da ormai mezzo secolo è al timone delle orchestre di lusso. Un bulimico, in arte e nella vita: è indicativa in tal senso la galleria di mogli (tre) e figli (si passa la decina). Una vita al centro dell’attenzione mediatica, la sua, perché il direttore, compositore e violinista Maazel è un personaggio, e fa notizia. Certo, per un periodo sparì dalla circolazione, era in semi-eremitaggio vuoi nella fattoria in Virginia, dove dimora anche il padre ultracentenario, vuoi in Sardegna, in una villetta lontana da ogni sguardo e adatta a comporre in santa pace, «nel silenzio della notte, aspettando che la musica arrivi», dice. Rito dell’oscurità che a un certo punto s’è prolungato per sette settimane durante le quali Maazel ha ultimato la sua unica opera, 1984, melodramma tratto dall’omonimo romanzo di Orwell, volto in libretto da McClatchy e Meehan e allestito da un alchimista dell’immagine come Robert Lepage. Per il debutto, nel 2005, la scelta cadeva sul Covent Garden di Londra. L’opera fu un semifiasco per la critica, ma a salvarla ci pensò il pubblico. 1984, in questi giorni anche in dvd per Deutsche Grammophon, dal 2 maggio conosce la sua prima ripresa dopo il battesimo, ed è al teatro alla Scala, con Maazel stesso sul podio. Parliamo di 1984 con il suo autore.
Come è nata l’idea di questo lavoro?
«Mi suggerirono di comporre un’opera su un tema all’attualità. Pensai a 1984 e in particolare alla storia d’amore, subito condannata al disastro, dei due giovani Julia e Wintson».
E pare che proprio i giovani abbiano apprezzato 1984.
«Mi dicono che componevano l’80% del pubblico. È una storia brutale, orrenda, scuote. Alla fine non c’era un occhio che non fosse bagnato».
Perché non ha scritto lei il libretto, la sappiamo abile e appassionato scrittore.
«Perché il compositore, concentrato com’è sulla musica, può perdere di vista il ritmo teatrale. Quindi è meglio scorporare i due ruoli».
Al suo apparire, 1984 ha sollevato dissensi...
«Sì, una valanga. Ma è un discorso lungo. L’opera doveva essere coprodotta con un teatro giapponese che poi ha avuto una crisi finanziaria. Scritturati gli artisti, tutto completato, non potevo lasciare a bocca asciutta chi aveva lavorato a 1984. Così volli intervenire sponsorizzando di tasca mia. Pensavo fosse un atto nobile, ma è stato letto come un gesto di vanità. E questo ha influito, ero un americano in terra inglese».
Che ne sarà di 1984 dopo il maggio scaligero?
«È attesa in altri sette teatri, stiamo chiudendo le trattative»
Che ne sarà invece della Symphonica Toscanini (l’orchestra di cui è direttore a vita), sappiamo che sono saltati i vertici. «È in progetto il ciclo Beethoven in Sicilia, e un concerto a Roma, per il Papa. È un periodo di ponte amministrativo».
A quando la prossima opera?
«Al momento sto pensando a una colonna sonora per un film sulla guerra in Corea. So per certo che inserirò Ariran, canzone popolare che ho proposto come bis durante il concerto con la New York Philharmonic, a Pyongyang».


Pensa ad altre operazioni-Pyongyang, a concerti vettori di pace? «L’arte è politica e la musica può aiutare a superare gli ostacoli nel dialogo fra i popoli. Tuttavia, io sono un musicista, non un diplomatico... È un campo delicato».

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