Ricorrendo a una indubitabile cacofonia - la polemica politica passa anche da un suono sgradevole - lhanno chiamata «Tassa Bossi». Una ridondanza di «esse» per affermare quanto potrebbe costare di più allo Stato non accorpare alle amministrative ed europee anche il referendum elettorale. E lopposizione, comè ormai noto, ha gettato sul piatto la cifra di 400 milioni di euro, sottolineandone la rilevanza soprattutto in un momento come questo, mentre la terra dAbruzzo ancora trema.
Il problema è capire se quei 400 milioni sarebbero davvero tali e soprattutto tanti. O se magari il lievito della polemica politica non li abbia fatti crescere come una biova pronta ad andare in forno. Fermo restando infatti che accorpare il referendum a europee e amministrative si tradurrebbe in un risparmio - per capirlo non occorre essere né matematici né economisti - permane il dubbio che qualcuno abbia ecceduto con il lievito.
A manifestare in merito qualcosa di più di un dubbio, è stato ieri il direttore del quotidiano Italia Oggi, Franco Bechis, che calcolatrice alla mano, comè sua abitudine, ha rifatto i conti. Arrivando alla conclusione che quei 400 milioni sarebbero in realtà al massimo poco più di un centinaio. Dando così indiretto conforto a Silvio Berlusconi che laltro giorno, tra le tende dei terremotati, aveva parlato di una «cifra lontanissima da quella circolata». E comunque molto meno costosa di una crisi di governo.
Ma tanto per saperlo, quei 400 milioni da dove arrivano? A mettere in colonna diverse voci di spesa, dirette e indirette, è stato il sito www.lavoce.info delleconomista Tito Boeri. Quelle dirette, 165 milioni (ma portate a 200 con un arbitrario surplus di 35), sono state ottenute da due suoi giovani collaboratori neolaureati, Davide Baldi e Giovanni Soggia, sommando dati ministeriali: remunerazione addetti ai seggi, trasporto schede e personale di sicurezza. Quelli indiretti, per unidentica cifra, aggiungendo invece al valore del tempo impiegato dalla gente per recarsi ai seggi due volte anziché una sola, sia la spesa per le famiglie con figli a carico iscritti a scuole chiuse il lunedì seguente il voto, sia la perdita di un giorno lavorativo per il personale impegnato ai seggi.
Ed è soprattutto su questi 200 milioni di costi indiretti che si è accanita la matita rossa e blu (nonchè lironia) del direttore di Italia Oggi. Il costo peripatetico derivante dalla doppia passeggiata degli italiani diretti ai seggi (e il loro ritorno a casa), misurato in mezzora a testa, sarebbe stato infatti calcolato sulla base di 3,15 euro, ovvero metà del salario medio orario in base ai dati Istat. Moltiplicando la cifra per il numero degli italiani che in media si recano alle urne, ne risulterebbero sì 127 milioni di spesa. Ma milioni - come dire? - virtuali, dal momento che non si capisce in base a quale percorso logico potrebbero essere posti a carico dello Stato. «È evidente come quei 127 milioni - commenta Bechis - non siano un costo in più per nessuno e non siano un risparmio in caso di accorpamento per alcuno».
Sorvolando poi sul fatto che le europee portano di norma alle urne meno elettori, e che quindi quei 127 milioni sarebbero (sempre virtualmente) ancor di meno, attenzione la merita anche la voce di 37 milioni di costi indiretti delle famiglie per far accudire i figli durante la vacanza forzata. Primo, non sarebbero appunto nemmeno questi a carico dello Stato; secondo, pare artificioso voler sommare un costo di babysitteraggio in un giorno, il 22 giugno, in cui le scuole di ogni ordine e grado sono comè noto chiuse. Mentre accorpando il referendum al voto europeo e amministrativo dei primi di giugno, laggravio ci sarebbe essendo necessario un giorno di scrutinio in più.
Altri 37 milioni, i collaboratori di Boeri li fanno poi derivare dalla mancata produttività degli addetti ai seggi in quanto esentati dal loro abituale lavoro.
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